Presunta ‘trattativa’, ecco perché Mori (con Subranni e De Donno) vuole la rimessione

ECC.MA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
ISTANZA EX ART. 45 C.P.P.

Il sottoscritto Prefetto Mario MORI, imputato nel procedimento penale n. 11719/12 R.G.N.R. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, in atto pendente innanzi la Corte di Assise di Palermo, II Sezione, espone quanto segue:
In data 7 marzo u.s. il GUP presso il Tribunale di Palermo emetteva decreto che dispone il giudizio nei confronti del sottoscritto, il quale è chiamato oggi a rispondere, innanzi la locale Corte di Assise, del reato di cui all’art. 338 c.p. in concorso, tra gli altri, con Riina Salvatore. (all. estratto decreto e capo di imputazione, all. 1)
In data 13 novembre u.s. il quotidiano La Repubblica (all. 2) pubblicava la notizia – con richiamo in prima pagina dal titolo inequivocabile “Riina ordina dal carcere: uccidete il PM Di Matteo” – secondo cui Salvatore Riina, intercettato presso la Casa di Reclusione di Milano Opera (è opportuno fin d’ora rilevare che tali intercettazioni sono state rese pubbliche solo a partire dalla fine di gennaio u.s.), aveva proferito minacce all’indirizzo non solo del predetto magistrato, ma anche degli altri Pubblici Ministeri di Palermo che si stanno occupando del processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia.

In particolare, colui il quale è stato riconosciuto – in sentenze ormai aventi autorità di cosa giudicata pronunciate da diverse Autorità Giudiziarie di questo Paese – come il “capo dei capi” dell’organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”, rivolgendosi ad altro detenuto, tale Alberto Lorusso, avrebbe esclamato, a leggere il quotidiano, “Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire” ed avrebbe aggiunto “Quelli lì devono morire, fosse l’ultima cosa che faccio”. (Repubblica 13.11.13 – all. 3)

Dal Corriere della Sera, a riscontro del fatto che le minacce siano state indirizzate a tutti i Pubblici Ministeri de quibus, si apprendeva un’altra frase pronunciata nell’occasione: “A tutti questi bisognerebbe macinargli le corna” (Corriere della Sera 14.11.13 – all. 4)

Per inciso, nel giro di qualche tempo si sarebbe avuta conferma di quanto fin da subito ventilato, vale a dire della circostanza che le intercettazioni erano state disposte dall’Autorità Giudiziaria e che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non era stato informato – né preventivamente, né successivamente – di tale attività, come ha dichiarato il Capo del DAP, dottor Tamburino, alla Commissione parlamentare Antimafia. (Nota ANSA 11.01.14 ripresa dal sito poliziapenitenziaria.it – all.ti 5)

La notizia de qua veniva riportata dall’ANSA e da tutti i mezzi di informazione e conosceva la più ampia diffusione in considerazione della sua rilevanza ed estrema gravità, anche perché il dottor Di Matteo già fruiva, prima ancora delle minacce di Riina, del livello massimo di protezione esistente (il livello 1), di una decina di carabinieri a propria tutela (alcuni dei quali appartenenti al Gruppo di Intervento Speciale, vale a dire l’unità operativa di elite dell’Arma, impiegata anche in Afghanistan) e di diverse auto blindate tra le quali un SUV.

Ma, alla grande apprensione per l’inequivocabile messaggio di morte, si aggiungeva lo sforzo degli “addetti ai lavori” di capirne di più.

Così il Procuratore di Palermo, nell’immediatezza, cercava di tutelare la segretezza della notizia, “diluendone” la importanza – pur dicendosi “profondamente” allarmato – ed astenendosi dal confermarne la veridicità o meno: “L’ALLARME DI MESSINEO – «Siamo profondamente allarmati per la pubblicazione della notizia delle minacce che Totò Riina avrebbe rivolto al pm di Matteo e ai colleghi che indagano sulla trattativa perché, ammesso che siano vere, queste minacce sembrano una chiamata alle armi che il boss fa ai suoi contro i magistrati che svolgono questa inchiesta e sono visti come ostili». Così il procuratore di Palermo Francesco Messineo ha commentato la notizia di minacce rivolte dal capomafia detenuto ai pm, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene. Il procuratore non ha voluto comunque confermare né smentire «la fondatezza di una notizia che avrebbe dovuto rimanere segreta».” (Corriere on line 13.11.13 – all. 6)

Le dichiarazioni del Procuratore Capo di Palermo venivano pubblicate anche altre fonti: “Palermo, 13 nov. (Adnkronos) – “Siamo profondamente allarmati per la pubblicazione di queste notizie, potrebbero quasi rappresentare una specie di chiamata alle armi per il popolo di Cosa nostra, nei confronti dei magistrati che si occupano del processo della trattativa tra Stato e mafia”. Lo ha detto il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, commentando la notizia delle nuove minacce al pm di Palermo Antonino Di Matteo che sarebbero arrivate dal capomafia Totò Riina dal carcere in cui è detenuto, come pubblicato oggi dal quotidiano ‘La Repubblica’.” (Comunicato ADNKronos riportato dal sito libero.it – all. 7)

Dalla edizione on line di altro quotidiano si apprendeva che il Procuratore di Palermo “Sulla verità, la fondatezza e la corrispondenza al vero delle minacce propalate da Totò Riina nei confronti del Pm Di Matteo, e pubblicate su un quotidiano, preferisco non fornire alcun elemento.” (Repubblica Palermo on line 13.11.13 – all. 8) e che “”Il passato ci ha insegnato qualcosa e, poiche’ non vogliamo ripetere le esperienze negative del passato, abbiamo ritenuto di esplicitare questo allarme” ha aggiunto Messineo ai giornalisti che chiedevano se l’attuale clima di allarme in procura sia simile alla stagione vissuta da Falcone e Borsellino nel 1992 e culminata con le stragi di Capaci e via D’Amelio, dopo le minacce di morte di Toto’ Riina contro Nino Di Matteo e i pm del processo sulla trattativa Stato-mafia.” (Repubblica Palermo on line 13.11.13 – all. 8)

Dalle parole del dottor Messineo si traevano, quindi, due dati: in primis “la chiamata alle armi” -definita dallo stesso “di estrema pericolosità” – ed, inoltre, la concretezza di tali azioni violente.

Frasi inequivocabili, quindi, minacce allarmanti proprio perché estremamente concrete, tanto da indurre il Prefetto di Palermo, dott.ssa Francesca Cannizzo, a convocare d’urgenza il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica al fine di valutare la situazione e le misure da adottare.

Il quotidiano dava atto che, in quella sede, si era valutato, dapprima, di trasferire il dottor Di Matteo e la famiglia al sicuro su un’isola e, successivamente deciso, invece, di chiedere un ulteriore impegno al Ministero dell’Interno “magari dotando la scorta di Nino Di Matteo di un “Jammer”, il dispositivo antibomba che blocca i segnali radio dei telecomandi nel raggio di duecento metri.” (Repubblica 13.11.13 – all. 3)

Tale notizia riveste una certa importanza, atteso che il riferimento ad un “dispositivo antibomba” implica, logicamente, che tutti i maggiori responsabili della sicurezza a livello provinciale abbiano considerato fondate e concrete sia le minacce che i pericoli conseguenti ad esse.

Ma soprattutto, abbiano ritenuto, altresì, che vi siano effettivi rischi di attentati tramite autobomba, così come già avvenuto nel 1992, quando tra il 23 maggio ed il successivo 19 luglio, persero la vita i dottori Falcone, Morvillo e Borsellino ed, altresì, i loro agenti di scorta.
Undici persone barbaramente uccise per volere di “cosa nostra”, i cui appartenenti sono stati riconosciuti colpevoli di tali efferate stragi. Ma non bisogna dimenticare che il tributo pagato in termini di vite umane avrebbe potuto essere molto più alto, in considerazione del fatto che, per uccidere il dottor Falcone non si è esitato a “far saltare in aria” un’autostrada particolarmente trafficata, vale a dire quella che collega Palermo con il suo aeroporto.

E, per porre fine ai giorni del dottor Borsellino, non ci si è fatto scrupolo di collocare un’autovettura imbottita di tritolo in città, in una strada (via Mariano D’Amelio) dove insistono condomìni di otto e più piani, che ospitano decine di famiglie. Senza tacere il fatto che, proprio dirimpetto all’ingresso della via D’Amelio (la distanza è di circa 15-20 metri) vi sono campi da tennis e da calcio a cinque, assiduamente frequentati dagli sportivi della città.

La gravità della notizia determinava, ovviamente e doverosamente, un coro di solidarietà nei confronti dei destinatari ma, altresì, iniziative a livello politico: “”Il governo garantisca la sicurezza e l’incolumità del pm di Palermo, Nino Di Matteo, in prima linea contro la mafia”. E’ l’appello che alcuni deputati Pd rivolgono ai ministri dell’Interno Alfano e di Grazia e Giustizia Cancellieri. “Dopo le minacce lanciate dal boss Totò Riina – spiegano i deputati – è opportuno che lo Stato dimostri il massimo di vicinanza nei confronti del magistrato di Palermo”. La dichiarazione, sottoscritta dagli onorevoli Michele Anzaldi, Donatella Ferranti (presidente commissione Giustizia della Camera), Danilo Leva (responsabile Giustizia del Pd) e Walter Verini (capogruppo Pd in commissione Giustizia) chiede al governo di dare “immediate rassicurazioni in merito al fatto che tutte le misure necessarie per proteggere Nino Di Matteo e la sua famiglia siano state prese”. I deputati si riservano di interpellare l’aula qualora il governo non dia risposte convincenti. “Sebbene l’avvertimento sia arrivato da un ergastolano destinato alla cella a vita -si legge nella dichiarazione- attacchi del genere non vanno sottovalutati. “” (Repubblica Palermo on line 13.11.13 – all. 8)

Dal canto suo L’On. Giuseppe Lumia, politico di lunga militanza, profondo conoscitore della realtà siciliana, da sempre impegnato nella lotta alla mafia, già Presidente della Commissione parlamentare Antimafia dal 2000 al 2001 ed attualmente membro della stessa, nel manifestare la propria personale “”Solidarietà e vicinanza a Nino Di Matteo, ai magistrati e agli uomini delle forze dell’ordine impegnati nel processo sulla trattativa Stato-mafia”.” ha aggiunto “”Chiaro…che Cosa nostra ed il sistema politico delle collusioni hanno ancora oggi paura del processo e dei possibili sviluppi investigativi. Attenzione – conclude l’esponente antimafia del Pd -, Riina non è un normale boss, detenuto in regime di 41 bis, vecchio e isolato. Penso proprio che non sia così. Cosa nostra nonostante i colpi subìti è viva e con in testa Riina e Matteo Messina Denaro c’è da aspettarsi di tutto, anche azioni violente verso i rappresentanti dello Stato”.” (Repubblica Palermo on line 13.11.13 – all. 8)

La estrema gravità delle esternazioni del Riina veniva confermata dal principale destinatario delle stesse. Il dottor Antonino Di Matteo della Procura di Palermo, intervistato da Sky Tg 24, affermava “Il personaggio da cui provengono queste affermazioni, queste esternazioni è colui il quale è stato ritenuto definitivamente colpevole delle stragi di Capaci, di via D’Amelio, della strage Chinnici, dell’omicidio del giudice Saetta, di tanti altri omicidi eccellenti. E’ un personaggio che ha sempre fatto da quando si è affacciato alla ribalta delle cronache mafiose, della violenza e della strategia di violento attacco alle istituzioni anche con i delitti eccellenti il suo cavallo di battaglia.” (Sky Tg 24 del 20.11.13 – all. 9)

Ed, ancor più esplicitamente, il predetto magistrato, intervistato da Rainews 24, sottolineava la obiettiva serietà delle minacce: “dobbiamo anche tenere conto che questi momenti e queste situazioni fanno parte del nostro lavoro, non ci dobbiamo fare condizionare neppure da queste situazioni anche quando obiettivamente come in questo caso possono rappresentare delle minacce serie” (Rainews 24 del 19.11.2013 – all. 10)

Una forte, esplicita, innegabile, conferma della assoluta gravità delle esternazioni di Riina è giunta dal massimo Responsabile dell’Ordine Pubblico in Italia, vale a dire il Ministro dell’Interno, On. Angelino Alfano, il quale – sulla base delle opportune informazioni degli organi competenti – ha ritenuto di dover dare (nella forma e nella sostanza) un segnale forte, recandosi a Palermo per presiedere, in data 3 dicembre u.s., il Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica alla presenza del Capo della Polizia, del Comandante Generale dei Carabinieri e di quello della Guardia di Finanza nonchè del Prefetto di Palermo. (Comunicato del Viminale – all. 11)

Da fonti del Viminale si apprendeva che “il Ministro ha voluto che il Comitato si tenesse a Palermo per manifestare solidarietà ai magistrati, di recente vittime di intimidazioni «delle quali – ha spiegato – si trova traccia nelle indagini, ma anche in sofisticati anonimi».” (Comunicato del Viminale – all. 11)

Ma il Ministro ha, anche, espressamente aggiunto che “«Ogni attentato o sfida ai magistrati è un attentato ed una sfida allo Stato. Non possiamo escludere la tentazione di una ripresa della strategia stragista dopo tanti anni di silenzio, ma lo Stato sarà pronto a reagire»” (Corriere della Sera 4.12.13 – all. 12)

E’ superfluo rimarcare come il Ministro dell’Interno abbia adoperato accortezza e parsimonia nel riferire gli elementi a sua disposizione, per evidenti ragioni di riservatezza. E, nonostante costui non abbia detto tutto ciò di cui è sicuramente informato, egli è stato chiaro, netto, non ha dato spazio ad affermazioni ambigue. E ciò conferma la fondatezza della notizia, la sua estrema gravità e la concretezza del pericolo in atto.

Tale allarme lanciato dal Ministro Alfano è stato immediatamente diffuso da tutti i mezzi di informazione.

E’ opportuno, riportare integralmente le dichiarazioni del Ministro dell’Interno a margine della riunione del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica: “Noi siamo qua a dire che ogni attentato possibile, ogni sfida possibile a ciascuno dei magistrati che operano a Palermo è un attentato, una sfida allo Stato cui lo Stato risponderà con tutta la forza di cui dispone. Lo Stato è forte ed è più forte di chi lo vuole combattere. Il nostro paese è un grande paese ed è in grado di contrastare cosa nostra ed il suo tentativo di riorganizzazione criminale ed il possibile insorgere di nuove tentazioni stragiste.…Nell’ambito del delicato processo della cosiddetta trattativa Stato-mafia si inseriscono tante minacce nei confronti di magistrati a cui noi oggi siamo venuti a dire “lo Stato vi protegge, è dalla vostra parte” ogni mezzo tecnico e meccanico di cui lo Stato dispone sarà posto a disposizione dei magistrati di Palermo per la loro protezione personale, per la loro protezione fisica, per la difesa della loro vita. Abbiamo voluto proprio per questo fare il Comitato, tenere una riunione del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica a Palermo proprio per dire l’intero Comitato Nazionale che è il più alto organismo che si occupa della sicurezza del paese si riunisce a Palermo e si riunisce a Palermo con lo scopo di mandare un messaggio chiaro “lo Stato non ha paura, è schierato dalla parte dei magistrati, non ha paura della mafia ed è pronto ad approntare ogni mezzo per difendere e sostenere i magistrati di Palermo….Molto concretamente si è ulteriormente disposto di rafforzare secondo le modalità che ovviamente non divulgo nel dettaglio, di rafforzare i dispositivi di sicurezza personale…Noi abbiamo messo a disposizione dei magistrati di Palermo ogni cosa che risulti necessaria quindi noi non badiamo a dispiegamento di mezzi e all’impiego delle forze, noi facciamo tutto quello che è necessario fare e la nostra venuta qui è una venuta che non ha un connotato simbolico ma un connotato pratico. C’è stato un allarme sicurezza sui magistrati e a questo allarme noi rispondiamo in modo molto concreto e molto pratico rafforzando ogni dispositivo di sicurezza….E’ stato reso disponibile il Bomb Jammer…Noi non possiamo escludere che ci sia la tentazione di riprendere una strategia stragista dopo questi anni di silenzio dal punto di vista dei grandi delitti eccellenti…” (Palermo Report audio in you tube – all. 13)

Dalle parole del massimo Responsabile dell’Ordine Pubblico, quindi, non può revocarsi in dubbio che il timore di “attentati” sia reale, effettivo e considerato tale ai più alti livelli incaricati della sicurezza del nostro Paese. Ed, inevitabilmente, quelle affermazioni rimandano ai tristi eventi del 1992 ed ai parallelismi con ciò che accadde quell’anno, quando, ironia della sorte, all’indomani dell’omicidio dell’On. Salvo Lima venne convocata a Palermo una riunione del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica che, purtroppo, non servì ed evitare, di li a qualche mese, le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Sennonché la reazione dello Stato (impersonata dal Ministro dell’Interno), non è stata affatto sufficiente in quanto, ad aumentare ancora la tensione ma, soprattutto, ad accrescere i pericoli per la sicurezza e la incolumità pubblica, ci hanno pensato altre esternazioni di Riina.

Infatti, in data 3 dicembre u.s., alle ore 21.00, vale a dire a poche ore dalla riunione del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica presieduto dal Ministro dell’Interno, l’ANSA di Palermo batteva la notizia che “Il boss Totò Riina sarebbe tornato a minacciare il pm palermitano Nino Di Matteo”. (Comunicato ANSA – all. 14)

Il contenuto di tali ulteriori minacce veniva reso noto da alcune testate giornalistiche due giorni dopo la riunione tenutasi presso la Prefettura di Palermo.

In data 5 dicembre u.s., Il Fatto Quotidiano scriveva che “Totò Riina minaccia di nuovo pm Di Matteo: «Questo Di Matteo non ce lo possiamo dimenticare. Corleone non dimentica», si sfoga il padrino di Corleone. Il boss pugliese, che il giorno prima ha saputo dell’intenzione di trasferire Di Matteo, in una località segreta, chiede a Riina: «Come farai se lo spostano?». E Riina risponde: «Tanto al processo deve venire»” (Il Fatto Quotidiano del 5.12.13 – all. 15)

Queste affermazioni causavano un ulteriore innalzamento dei timori per l’ordine pubblico, in considerazione del fatto che, stavolta, il Riina non solo si era mostrato parimenti determinato nel portare a termine questo progetto ma, altresì circostanziato. In altre parole, egli, ben consapevole delle possibili misure a tutela del Pubblico Ministero quali il trasferimento su un’isola (ventilato in seno al Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica), mostrava di avere già in mente una contromisura: “tanto al processo deve venire.”.

E, ancor più allarmante sotto il profilo della sicurezza e della incolumità pubblica (definite pacificamente e concordemente come il complesso delle condizioni, garantite dall’ordinamento giuridico, necessarie per la sicurezza della vita, dell’integrità personale di un numero indeterminato di persone), è la indicazione spazio-temporale data dal boss corleonese.

Invero, per ciò che attiene alla seconda, essa lascia intendere (stante il fatto che il processo è attualmente in corso) che in qualunque momento potrebbe verificarsi un attentato.

Quanto all’elemento spaziale – “deve venire” – vi è da dire che le parole di Riina sono ancor più preoccupanti, alla luce di alcune logiche quanto banali considerazioni.

In primo luogo esse dimostrano che una delle possibili modalità di esecuzione di tale proposito criminoso potrebbe verificarsi in occasione delle udienze relative al processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia. Udienze alle quali partecipano anche i giudici del collegio giudicante, i collaboratori amministrativi, gli addetti alla registrazione, gli avvocati e gli imputati.

Ma, soprattutto, un folto pubblico (addirittura in alcune occasioni hanno partecipato delle scolaresche ed, in altre, magistrati provenienti da paesi stranieri), espressione della società civile, dell’associazionismo ovvero semplici “curiosi” ed “appassionati” di tali vicende; in altre parole un pubblico avente estrazione eterogenea, al quale si aggiunge (e dal quale risalta il dato numerico in termini di vite umane esposte al rischio concreto di attentati) il “pubblico professionale”, vale a dire i numerosi giornalisti (con operatori al seguito per le riprese), talvolta anche stranieri. Senza considerare, last but not least, i poliziotti e carabinieri addetti ai controlli espletati per l’accesso ai luoghi.

Ogni udienza vede, in media, la partecipazione di circa un centinaio di persone che, attualmente ed in considerazione di tali minacce, sono esposte al rischio di attentati e di azioni violente. In considerazione di ciò – ed ad esclusiva tutela dell’ordine e dell’incolumità e sicurezza pubblica – potrebbe essere opportuno disporre la sospensione del processo in attesa della decisione di codesta Ecc. ma Corte Suprema.

Inoltre il termine “deve venire” induce a ritenere che l’attentato potrebbe compiersi anche nel tragitto casa-tribunale, ovvero tribunale-aula protetta. Ed è fin troppo banale soggiungere che a nulla varrebbero i cambi di percorso, i mezzi blindati, la protezione delle teste di cuoio e quant’altro. Infatti anche per il dottor Falcone ed il dottor Borsellino erano stati adottati tali accorgimenti che, tuttavia, dinnanzi ai 400 kg di tritolo per il primo ed ai 100 kg per il secondo, non servirono a salvar loro la vita.

Il triste parallelismo con le stragi del 1992 non è, purtroppo, frutto di insinuazioni, di fervide fantasie, di una strategia della tensione sapientemente orchestrata da quelle che lo stesso giudice Falcone definiva “menti raffinatissime”, ma è un dato oggettivo che trova fondamento non smentibile ancora una volta nelle parole pronunciate da Salvatore Riina.

Invero, il 5 dicembre u.s., i mass media, nel pubblicare la notizia di nuove minacce all’indirizzo dei Pubblici Ministeri di Palermo e del dottor Di Matteo in particolare, citavano espressamente altre affermazioni del boss corleonese: “Gli finisce come a Falcone che voleva venire a vedere la mattanza e poi ha fatto la fine del tonno” (Il Fatto Quotidiano 5.12.13 – all. 15 e Giornale di Sicilia 5.12.13 – all. 16)

Il significato di tale proposizione, ove ve ne fosse ulteriormente bisogno, veniva precisato da altro quotidiano che riportava la seguente frase del Riina “«Lo farei diventare il primo tonno, il tonno buono», insisteva.” (Repubblica 6.12.13 – all. 17)

Le nuove esternazioni di Riina inducevano alcuni autorevoli Procuratori a fornire le loro valutazioni.

Così, il Procuratore di Caltanissetta – intervistato dalla dottoressa Lucia Annunziata nella trasmissione televisiva di Rai 3 “in mezz’ora” – affermava “”Toto’ Riina e’ uno che ha un’alta considerazione di se’ e, malgrado abbia 83 anni, e’ molto lucido. Le dichiarazioni che ha espresso contro il pm Nino Di Matteo non vanno prese sottogamba. Chi riveste un ruolo apicale all’interno di Cosa Nostra lo mantiene finche’ vive”.” (AGI 8.12.13 – all.ti 18). Il Capo della Procura Nissena, nell’occasione, riconduceva tali minacce ad un “possibile colpo di coda di cosa nostra” (La Stampa 8.12.13 – all.ti 18) e precisava che esse sono determinate da una “voglia di vendetta e di rivalsa” (ANSA del 5.12.13 – all.ti 18)

Il giorno seguente il quotidiano Libero.it riportava un comunicato della Agenzia ADNKronos che diffondeva le dichiarazioni del Procuratore Nazionale Antimafia, dottor Franco Roberti: “Reggio Calabria, 9 dic. (Adnkronos) – “Il detenuto Salvatore Riina, al 41 bis, manifesta propositi di odio nei confronti di colleghi siciliani, soprattutto del pm Di Matteo. Questo è un dato di fatto”. Così il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti è intervenuto nella commissione parlamentare antimafia sulle minacce del boss siciliano al pm di Palermo Di Matteo. Arrivati a questo punto dell’audizione che si sta svolgendo a Reggio Calabria, tuttavia, le sue parole sono state secretate.” (Libero.it – all. 19)

Sulla stessa lunghezza d’onda il Presidente del Senato, Pietro Grasso, già Procuratore Nazionale Antimafia, Procuratore Capo di Palermo, giudice a latere nel primo maxiprocesso a “cosa nostra”.

La seconda carica dello Stato, riguardo alle minacce nei confronti dei colleghi di Palermo, si è così espresso: “”In questi casi è una questione di probabilità di rischio. Per evitare le ferite laceranti e dolorose del passato, per evitare che si ripetano, è giusto avere la massima attenzione e mettere in atto tutte le misure possibili per proteggere l’ex collega. E dico questo indipendentemente dalle valutazioni su ciò che è uscito e come è uscito. Anche perché se queste informazioni non escono pubblicamente, possono trapelare per altre vie ed essere ancora più pericolose”.” (Repubblica 18.12.13 – all. 20)

Mentre il dottor Nicola Gratteri, Procuratore Aggiunto di Reggio Calabria, ha senza mezzi termini ricordato che Riina è “uno dei pochi capimafia ancora in grado di avere ascolto in cosa nostra” (Il Fatto Quotidiano 7.12.13 – all. 21), così confermando sia che quest’ultimo è ancora il capo incontrastato, sia le valutazioni dei colleghi di Palermo sulle quali di dirà infra.

Le suddette affermazioni sono provenienti da “addetti ai lavori” che per la loro autorevolezza, esperienza in “cose di mafia” e, soprattutto accesso ad informazioni riservate (che né i media né, conseguentemente, il pubblico, possiede) non sono certamente tacciabili di voler diffondere artatamente allarmi infondati e, più, in generale di voler alimentare un clima di terrore.
Ma, anzi, costoro sono da ritenere “iuris et de iure” attendibili e, parimenti, le dichiarazioni da loro rese sono da ritenere esternate dopo attenta valutazione fondata su dati oggettivi e concreti in loro possesso, sicchè esse non lasciano dubbi sulla gravità della situazione in atto.

Ma l’escalation dei pericoli per la sicurezza pubblica, originata da tali esternazioni, non si è fermata qui.

In data 10 dicembre u.s. Il Fatto Quotidiano pubblicava la decisione di Riina, espressa con le seguenti parole: “È tutto pronto, e lo faremo in modo eclatante”. È l’ultima, gravissima, minaccia, di Totò Riina, ascoltata qualche giorno fa e ritenuta più seria e pesante di tutte le altre: nel carcere di Opera il boss corleonese continua a parlare e quella frase captata dagli investigatori della Dia di Palermo ha fatto scattare domenica l’allarme rosso per Nino Di Matteo, il pm della trattativa Stato-mafia.” (Il Fatto Quotidiano 10.12.13 – all. 22)

Tale notizia veniva riscontrata, in data 11 dicembre u.s., da altri quotidiani che pubblicavano altre affermazioni di Riina dal tenore estremamente preoccupante, in quanto confermavano l’intendimento di voler porre in essere un’esecuzione “in grande stile” ed in tempi brevi: “«Organizziamola questa cosa – ha sussurrato con tono deciso – facciamola grossa e non ne parliamo più, perché questo Di Matteo non se ne va. Dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo».” (Repubblica 11.12.13 – all. 23)

Il riferimento alla “esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo” è un altro inequivocabile richiamo ai fatti del 1992, atteso che l’operazione “Vespri Siciliani” venne disposta dal Governo il 25 luglio 1992, proprio all’indomani della strage in cui perse la vita il dottor Borsellino.

Per inciso, non è superfluo rilevare come l’Esercito Italiano qualifichi tale missione: “L’operazione “Vespri Siciliani” rappresenta il primo intervento in grande stile, per ragioni di ordine pubblico, effettuato dalle Forze Armate nel dopoguerra.” (cfr. pagina estratta dal sito dell’Esercito Italiano – all. 24)

Il quotidiano, però, a testimonianza dell’immanenza e della gravità del pericolo, dava anche notizia dell’eccezionale applicazione di una norma del codice di procedura penale: “Domenica, fra Palermo e Roma è stata attivata una procedura d’urgenza che non ha molti precedenti, è prevista dall’articolo 118 del codice di procedura penale: autorizza i magistrati a trasmettere atti d’indagine ancora segreti al ministro dell’Interno, «ritenuti indispensabili per la prevenzione dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza». Così, l’ordine lanciato da Riina è finito ufficialmente all’attenzione di Alfano.” (Repubblica 11.12.13 – all. 23)

Altro autorevole quotidiano, il Corriere della Sera, nel dar conto dell’applicazione dell’art. 118 c.p.p., evidenziava come questa costituisce l’“Unica ipotesi di comunicazione prevista fra inquirenti e governo «per la prevenzione dei delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza».” e riportava le parole – virgolettate – del Procuratore di Caltanissetta: “Esplicito il richiamo all’ansia «per un’azione che rischierebbe di riportare indietro l’Italia di vent’anni», come ha commentato a denti stretti Lari trasferendosi quella stessa domenica dal Viminale agli studi Rai per l’intervista con Lucia Annunziata.” (Corriere della Sera 11.12.13 – all. 25)

Il cronista che, dal tenore dell’articolo, mostrava di avere avuto una diretta interlocuzione con il dottor Di Matteo, dava atto che il magistrato è “Cosciente di una accelerazione dell’allarme che circonda questo pubblico ministero protagonista del processo Stato-mafia soprattutto da venerdì scorso, quando nel carcere di Opera a Milano è stata intercettata l’ennesima minaccia del gran capo dei Corleonesi, l’ottuagenario Totò Riina. Un riferimento esplicito del boss a un attentato da compiere anche durante un viaggio, una trasferta, in un luogo aperto al pubblico, forse un aeroporto.” (Corriere della Sera 11.12.13 – all. 25)

Il che, ancora una volta, evoca alla mente quanto occorso il 23 maggio 1992 al giudice Falcone, alla moglie ed agli agenti di scorta i quali, proprio di rientro a Palermo dall’aeroporto di Punta Raisi, conobbero la morte per mano mafiosa.

Ma vi è di più, a testimonianza della inevitabilità del pericolo che attualmente investe la Procura di Palermo, il processo di Palermo ma, soprattutto, la città, gli abitanti ed, in sintesi, l’ordine pubblico nel capoluogo siciliano.

Nell’articolo, l’autore riportava fedelmente la risposta del dottor Di Matteo in ordine alla proposta, a lui avanzata – (da parte del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, a leggere Il Fatto Quotidiano, come si evince dalla domanda del dottor Travaglio al dottor Di Matteo nell’intervista del 18.12.13 – all. 31 infra) – di utilizzare un blindato “Lince” nei suoi spostamenti: “«No, non se ne parla. Non posso andare in giro per Palermo, in un centro abitato, con un carro armato. Non chiedetemelo». (Corriere della Sera 11.12.13 – all. 25)

La suddetta circostanza è stata confermata dal Procuratore Capo di Caltanissetta, dottore Lari, “Se volesse, sarebbero pronti ad accompagnarlo da casa al tribunale con un tank di quelli che si usano in Afghanistan. Starà a lui decidere, è una scelta che tocca anche la qualità della vita personale.” (Huffington post 5.12.13 – all. 26)

Tale riferimento ad un “carro armato”, adoperato addirittura in Afghanistan (all. 27), è estremamente importante perché costituisce un ulteriore indice rivelatore dell’enorme gravità ed immanenza dei pericoli per l’incolumità e la sicurezza pubblica a Palermo.

Il richiamo al “Lince” impone una breve digressione: come si evince dal sito del Ministero della Difesa “Il 17 settembre 2009, in seguito all’esplosione di un autoveicolo bomba al passaggio di un convoglio formato da due VTLM “Lince”, sulla rotabile dall’aeroporto internazionale di KAIA (Kabul International Airport) al Quartier Generale delle Forze della Coalizione, perdevano la vita sei militari dell’Esercito: Capitano Antonio Fortunato; Sergente Maggiore Capo Roberto Valente; Caporal Maggiore Capo Massimiliano Randino; Caporal Maggiore Scelto Matteo Mureddu; Caporal Maggiore Scelto Giandomenico Pistonami; Caporal Maggiore Scelto Davide Ricchiuto.” (cfr. pagina estratta dal sito internet del Ministero della Difesa – all. 28)

Tale episodio dimostra che il blindato “Lince” non protegge da esplosivo ad alto potenziale né, a fortiori, da autobombe.

In ogni caso, e a prescindere da quanto detto, il “Lince” non protegge dagli attacchi a mezzo di autobombe, come dimostrano le numerose vittime italiane in Afghanistan.

Stesse considerazioni valgono per il c.d. Bomb Jammer: invero tale strumento, prodotto negli Stati Uniti da una società specializzata del settore, non ha impedito che, in Afghanistan, fossero compiuti attentati, a mezzo di autobomba, nei quali hanno perso la vita, militari americani in missione ISAF (unitamente agli italiani e ad altri appartenenti ad una forza multinazionale).

Ed è superfluo evidenziare quale sia la professionalità ed il grado di preparazione, anche tecnica, delle forze armate statunitensi. (Rainews24 del 13.12.12; lettera43.it in data 27.02.12 e 26.12.12; Il Messaggero del 13.09.13 – all.ti 29)

Peraltro, in merito alla disponibilità del Bomb Jammer, il Procuratore Lari ha precisato che “Le confermo questo dato, è soltanto in corso una sperimentazione per verificare se questo strumento che normalmente viene utilizzato in territori desertici come in Afghanistan sia utilizzabile anche in territori urbani senza danneggiare la salute per esempio dei portatori di pace-maker o di soggetti che hanno apparati elettromedicali, se questo esame sarà superato allora sarà possibile.”

Tale circostanza ha trovato conferma in un articolo dell’Ing. Salvatore Borsellino che riportava notizie provenienti dall’interno del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica. Egli così si è espresso: “Ho saputo oggi che mentre sia nell’incontro con me che in conferenza stampa il ministro Alfano ha dato come già disposta la dotazione per la scorta di Di Matteo del bomb jammer, in realtà, all’interno della riunione del Comitato Nazionale per la Sicurezza, si è espresso in maniera diversa. Ha detto che il bomb jammer sarà adottato ove risulti dai test che sono in corso, che non sia nocivo per la salute.” (Pagina estratta dal sito 19 luglio 1992 – all. 30)

Le riserve sul Bomb Jammer ed il fatto che sia stato solo “promesso dal Ministro Alfano (ma in realtà ancora sub judice per i suoi presunti effetti collaterali)” venivano suffragate anche da Il Fatto Quotidiano che evidenziava come “lo studio sugli effetti collaterali commissionato mesi fa dal ministero dell’Interno è ancora in corso perché sembra che il dispositivo non sia mai stato utilizzato in aree urbane popolate.” (Il Fatto Quotidiano 7.12.13 – all. 21)

Tali digressioni non sono fini a se stesse ma dimostrano come, in conseguenza delle minacce di Salvatore Riina, si sia subito pensato di far ricorso a mezzi da guerra, fabbricati ad uso bellico ed impiegati in guerre, in questa o quella parte del mondo. Ed è chiaro, anche in considerazione di ciò, che non possa revocarsi in dubbio l’esistenza, nella vicenda che ci occupa, di “gravi situazioni locali” tali da pregiudicare la “sicurezza e l’incolumità pubblica” come meglio si dirà infra.

E che queste “situazioni” siano “non altrimenti eliminabili” è inequivocabilmente comprovato sia dal fatto che ogni accorgimento – quali il Bomb Jammer ed il “Lince”, per citare le ipotesi più ventilate – costituisce l’extrema ratio (in termini di sicurezza personale) sia dalla considerazione che, oltretutto come visto supra, essi non sono sufficienti, in concreto, a scongiurare il rischio di attentati.

Ma la non “eliminabilità” del pericolo si trae anche da altri dati oggettivi e parimenti importanti: in primis le sentenze passate in giudicato e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, i quali “insegnano” che gli ordini di morte di “cosa nostra”, una volta deliberati, non vengono revocati. Tale dato può considerarsi ormai notorio.

Inoltre le parole di Riina non costituiscono mere minacce, ancorchè specifiche e concrete, di morte ma veri e propri ordini. La miglior conferma in tal senso si trae dalle parole del dottor Di Matteo il quale, intervistato da Il Fatto Quotidiano, ha testualmente affermato “Tutti parlano di minacce di Riina. Ma minacciare qualcuno significa volerlo spaventare. Riina, intercettato in carcere, non si limita a minacciarmi: il suo è un crescendo di parole rabbiose che culminano nell’ordine di uccidermi. Tant’è che i procuratori di Palermo e di Caltanissetta hanno utilizzato uno strumento eccezionale previsto dal Codice per “desegretare” le intercettazioni e ne han consegnato la trascrizione e il supporto audio-video al ministro dell’Interno Alfano. Parlare di “minacce” è improprio e fuorviante.” (Il Fatto Quotidiano 18.12.13 – all. 31)

Ancor più esplicitamente, il Pubblico Ministero destinatario di tali lugubri attenzioni, ha affermato “le minacce delle mafie sono sempre cose serie. Ma i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia sono un caso a parte: qui lo stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista, sospesa vent’anni fa con la lunga Pax Mafiosa seguita alla trattativa.” (Il Fatto Quotidiano 18.12.13 – all. 31)

Ed, ancora, costui ha – senza mezzi termini – ribadito che Riina vuole ucciderlo e manifesta, altresì, una “rabbia furibonda” nei confronti anche dei suoi colleghi impegnati nel processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia: “C’è chi ancora ripete il ritornello che, scoperchiando la trattativa, abbiamo fatto un favore a Riina mettendo sotto accusa uomini dello Stato e della politica. Riina, a sentirlo parlare, non sembra proprio pensarla così. Anzi: manifesta nei nostri confronti una rabbia furibonda, che vuole addirittura tradurre nel mio assassinio.” (Il Fatto Quotidiano 18.12.13 – all. 31)

Il Procuratore Di Matteo ha tenuto ad evidenziare, con un linguaggio che non lascia spazio ad interpretazioni, come il pericolo non sia circoscritto a lui, ma sia esteso anche ai suoi colleghi: “Ecco: quando si è capito che non ci fermiamo, sono partite non solo minacce e ordini di morte, ma anche episodi pericolosi come l’irruzione in casa del giovane collega Roberto Tartaglia.” (Il Fatto Quotidiano 18.12.13 – all. 31)

Le dichiarazioni del dottore Di Matteo, destinatario principale delle minacce (rectius “l’ordine di uccidermi”), giocoforza colui che – a parte i massimi responsabili della sicurezza pubblica del nostro Paese ed, in primis, il Ministro dell’Interno – più ha contezza della portata delle esternazioni di Riina, non lasciano spazio ad equivoci: si tratta di un ordine di morte, si è in presenza di un rischio concreto ed attuale di attentati non solo nei confronti del predetto, ma anche degli altri colleghi che seguono il medesimo processo.

Circostanza, questa, corroborata dalle parole del Ministro dell’Interno, il quale in occasione dell’audizione in Commissione parlamentare Antimafia, tenutasi il 16 dicembre u.s., ha affermato “Ma i magistrati nel mirino della mafia, ha chiarito il titolare del Viminale alla Commissione, sono quattro. «A loro – ha assicurato il neo segretario del Ncd – abbiamo offerto ogni disponibilità che è nei poteri dello Stato di dare. Oltre quello che abbiamo messo a disposizione non c’ è nulla in natura».” (Repubblica 17.12.13 – all. 32)

Ancora più esplicitamente veniva evidenziato che “Per Alfano “l’ipotesi di azioni eclatanti” come quella che, da quanto è emerso da alcune intercettazioni nel carcere di Opera, il boss Totò Riina stava pensando per colpire il pm di Palermo Nino Di Matteo, hanno “lo scopo di dare il segno esterno di una ripresa dell’attività mafiosa” e ha assicurato che per tutti i magistrati che sono stati raggiunto da minacce sono già state applicate misure di protezione che “corrispondono ai massimi livelli di rischio”” (Repubblica Palermo on line 16.12.13 – all. 33)

Le parole del Riina, per un verso, e quelle del Ministro dell’Interno, dall’altro, non lasciano dubbi circa le modalità ed i mezzi attraverso i quali raggiungere tale obiettivo: il ricorso ad autobombe ed all’uso di esplosivi tali, per loro natura, a porre in pericolo la sicurezza e l’incolumità di un numero indefinito di persone. Strumenti idonei a perpetrare delle stragi!

L’eccezionalità della situazione di ordine pubblico in atto esistente a Palermo è ancora una volta comprovata dalle parole del dottor Di Matteo “«Sapevo a cosa andavo incontro quando ho cominciato a fare il magistrato, il lavoro che volevo fare: il pm, non il giudice. A Palermo avevano già ucciso molti colleghi, c’ era già stato Capaci, via D’ Amelio, ma non credevo che si potessero ripresentare momenti così».” (Repubblica 17.12.13 – all. 34)

Parole che hanno indotto uno dei più autorevoli cronisti “di mafia” fin dai tempi del primo maxiprocesso a “cosa nostra” – il dottor Attilio Bolzoni – ad osservare che “Mai era accaduto – neanche ai tempi del maxi processo a Cosa Nostra – che un pm non potesse andare in udienza «per motivi di sicurezza»” (Repubblica 17.12.13 – all. 34).

Una situazione, quindi, pacificamente di estrema gravità, addirittura superiore (nelle parole di Bolzoni) e comunque assolutamente paragonabile a quella caratterizzante gli “anni bui” delle stragi del 1992. E lo dimostra un altro, inequivocabile parallelismo: “Un confidente ha appena svelato «che è arrivato l’ esplosivo» anche per lui. Era accaduto nell’ estate del 1992, quando qualcun altro aveva annunciato il tritolo per Paolo Borsellino. Tutto come vent’ anni fa?” si è chiesto il cronista, citando entro virgolette quella frase, evidentemente appresa da fonti attendibili. (Repubblica 17.12.13 – all. 34).

Ad ulteriore conferma della estrema gravità delle minacce, vale citare le affermazioni del Presidente della Repubblica (che è anche Capo del Consiglio Supremo di Difesa), il quale ha espressamente parlato di “modo più brutale” e di insidie non solo ai magistrati, ma anche “alla convivenza civile”. Di tali dichiarazioni ha dato contezza una nota dell’Agenzia ADNKronos: “Roma, 16 dic. (Adnkronos) – “Le insidie vengono da molte parti: vengono nel modo piu’ brutale dalla criminalita’ mafiosa, dalle sue minacce ai magistrati e alla convivenza civile”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento alla cerimonia per lo scambio degli auguri di Natale e Capodanno con le alte cariche dello Stato al Quirinale. “Ai servitori della legge impegnati con coraggio su quel fronte, va la nostra piena, limpida, concreta solidarieta'”, ha aggiunto il Capo dello Stato.” (Comunicato ADNKronos – all. 35)

Lo scorso 12 gennaio, inoltre, si è tenuta a Palermo una manifestazione organizzata (da Il Fatto Quotidiano) a sostegno dei Pubblici Ministeri destinatari del “l’ordine di eliminarci” che ha visto la partecipazione degli stessi ed anche del Procuratore Generale di Palermo, dottor Roberto Scarpinato, il quale ha usato toni allarmanti.

Costui, dopo avere premesso che la sua attività è, in questi giorni, assorbita in modo crescente dalla sicurezza dei magistrati del distretto, ha delineato un quadro inquietante: “Nel corso di un dibattito al teatro Golden su “A che punto sono mafia e antimafia”, uno degli esponenti di punta dell’antimafia palermitana ha paventato la voglia di Cosa nostra di tornare alla strategia eversiva.” (Repubblica.it 12.01.14 – all. 36) aggiungendo che “”Nell’universo mafioso c’è un clima di insofferenza che si manifesta non soltanto nei confronti della magistratura, ma anche nei confronti di alcuni esponenti della classe dirigente di Cosa Nostra stessa che finora hanno praticato la strategia della sommersione”, ha detto il procuratore generale. “C’e’ la richiesta all’interno di Cosa nostra di uomini forti che sappiano sbattere i pugni sul tavolo e far “abbassare le corna” alla mafia (rectius: magistratura n.d.r.) ringalluzzita. In sostanza Riina auspica il ritorno alla maniere forti che siano di lezione alla magistratura – ha aggiunto – Le sue parole possono essere interpretate come un’autorevole legittimazione per coloro che vogliono questo ritorno alla maniere forti differentemente da molti altri esponenti di un’ala piu’ moderata”, ha concluso Scarpinato.” (Repubblica.it 12.01.14 – all. 36)

Di tale allarme lanciato dal dottor Scarpinato, hanno dato atto altre testate, citando altre frasi del Procuratore che non lasciano spazio ad equivoci: “”In questi ultimi mesi si sta registrando un’escalation che credo non abbia precedenti simili nella storia – puntualizza Roberto Scarpinato al suo arrivo – e che riguarda un grande numero di pubblici ministeri. La sensazione complessiva è che all’interno dell’universo mafioso stia accadendo qualcosa di epocale e stia lievitando un’insofferenza sempre maggiore”. Secondo il procuratore generale di Palermo sono due i fattori da tenere in considerazione: il pericolo odierno proveniente dalla mafia della seconda e terza repubblica e quello più antico, proveniente dalla mafia del passato, quella di Riina. “Se queste due forze si uniscono – dice – possono creare una miscela esplosiva, una pericolosa sinergia. All’interno del mondo mafioso cresce di giorno in giorno la richiesta di uomini forti che sappiano battere il pugno sul tavolo e che sappiano ‘abbassare le corna’ alla magistratura. Riina – alza i toni – auspica un ritorno alle materie forti, parla di gesti eclatanti che diano una lezione ad una magistratura che non si vuole fermare. Si tratta di un capo che pur da dietro le sbarre intercetta la voglia crescente di violenza da parte del ventre del popolo di Cosa Nostra e che la incentiva, la autorizza”.” (Live Sicilia 12.01.14 – all. 37)

In quella occasione era anche presente il dottor Di Matteo, il quale si è lasciato andare ad un, fin troppo eloquente, “”Io non so fino a quando ci faranno continuare, fino a quando sarà possibile”” (Live Sicilia 12.01.14 – all. 37) aggiungendo – tra un “nonostante tutto” ed un “comunque vada” che suonano quasi come un testamento – una speranza: “”La speranza che voi tutti, nonostante tutto e comunque vada, continuerete a cercare la verità e a pretendere che i magistrati e gli uomini di legge siano sganciati dal potere mafioso e questo, ne sono convinto, finirà per tutelare la nostra vita e la vostra sicurezza”.” (Live Sicilia 12.01.14 – all. 37)

Naturalmente noi tutti auspichiamo che tale “testamento” non sia mai aperto, per il bene del Procuratore ed anche di questo Paese (che ha già conosciuto tanto sangue e tante stragi); ma anche le suddette dichiarazioni dimostrano, senza tema di smentita, che la situazione è seria ed i pericoli concreti. E, purtroppo, l’esperienza insegna che la continua ricerca della verità da parte dell’opinione pubblica non basta a “tutelare la nostra vita e la vostra sicurezza”.

L’ultimo atto di questa escalation, ad oggi, è rappresentato da “nuovi ordini di morte” (Repubblica, edizione di Palermo del 14.01.14 – all. 38) lanciati da Riina sempre all’indirizzo del dottor Di Matteo. Il boss corleonese avrebbe esclamato “Gli faccio vedere io…questa è la goccia che fa traboccare il vaso.” (Repubblica, edizione di Palermo del 14.01.14 – all. 38. Notizia riportata anche da Il Fatto Quotidiano del 17.01.14 – all. 43 infra).

Tali nuove invettive hanno reso necessaria una nuova convocazione, il 13 gennaio u.s., del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica. In tale sede sono state adottate nuove misure a tutela del magistrato che “avrà a disposizione un elicottero per i suoi spostamenti più delicati, in città o anche fuori” (Repubblica, edizione di Palermo del 14.01.14 – all. 38). Il tutto in aggiunta al fatto che “Ogni giorno, sono 42 i carabinieri che si occupano della protezione di Nino Di Matteo” (Repubblica 16.01.2014 – all. 39) ed in attesa dell’arrivo del Bomb Jammer, in relazione al quale “Il comitato provinciale ha chiesto approfondimenti su questa apparecchiatura al Cisam, il Centro Interforze studi e applicazioni militari. La relazione degli esperti dice che il «jammer» si può utilizzare senza problemi fuori dai centri abitati, in città rischia invece di procurare pericolosi effetti collaterali per le radiazioni che emette.” (Repubblica, edizione di Palermo del 14.01.14 – all. 38)

Per inciso, e prima di proseguire nella cronologia di questa escalation, è da dire che all’incontro organizzato da Il Fatto Quotidiano (a Palermo il 12 gennaio u.s.) era presente anche il Procuratore Generale di Palermo, dottor Roberto Scarpinato, il quale vi ha partecipato insieme ai Pubblici Ministeri del processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia.

In quella occasione, alla presenza del direttore del giornale, dottor Antonio Padellaro (sentito appena tre giorni prima dinnanzi alla locale Corte di Assise nell’ambito del suddetto processo ed in qualità proprio di teste di quegli stessi Pubblici Ministeri che con lui si sono dati un appuntamento “conviviale” a Palermo appena tre giorni dopo. Lo si rileva, incidentalmente, giusto per “non” parlare di condizionamenti!), il Procuratore Generale di Palermo ha disquisito sulle minacce proferite dal Riina.

Egli così si è espresso: “Vengo ora a esaminare i pericoli che vengono dal passato, cioè dalle minacce e dai propositi di morte di Riina di cui la stampa nazionale ha dato ampie notizie. In sostanza Riina invoca un ritorno alle maniere forti, il compimento di gesti eclatanti di rottura per dare una lezione ad una magistratura che non intende fermarsi nelle indagini. Questo input di Riina che viene dal vertice dell’organizzazione da parte di un capo che, seppure detenuto da 24 anni, secondo le regole di Cosa Nostra non è mai decaduto dalla carica, intercetta la voglia crescente del ritorno alle maniere forti che viene spontaneamente dal basso. Al di là degli scopi immediati e reconditi di Riina, le sue parole possono dunque essere interpretate all’interno dell’organizzazione come una investitura o un’ autorevole legittimazione all’azione di coloro che premono per un ritorno alle maniere forti, spostando così l’ago della bilancia a loro favore rispetto ai “moderati”. Riina ha continuato a manifestare quei propositi di morte anche dopo avere appreso dalla stampa che le sue parole erano state ascoltate. La situazione di instabilità politica è un ulteriore fattore di incremento del rischio.” (Il Fatto Quotidiano, 16.01.14 – all. 40)

Tali affermazioni non lasciano spazio a dubbi sulla estrema concretezza del pericolo in atto, che legittima la rimessione ex art. 45 c.p.p.

Ma il Procuratore Generale si è lasciato andare anche ad una analisi in ordine a tali minacce, affermando che “Veniamo ora all’analisi delle minacce di Riina, e qui sta la parte più difficile. In questi ultimi tempi mi veniva da pensare che in questo paese è come se fossimo prigionieri del nostro passato, un passato che pesa come un’enorme zavorra sul futuro.” e rilevando, altresì, che “Ove pure quel processo dovesse concludersi con sentenze di condanna, si tratterebbe di pene detentive di pochi anni, assolutamente irrilevanti per uno come Riina che ha collezionato una serie di ergastoli. Dunque perché fermare un processo che avrebbe conseguenze processuali pratiche insignificanti per Riina? Direi di più: un’eventuale strage avrebbe effetti assolutamente contro producenti perché cristallerebbe nell’immaginario collettivo di gran parte della pubblica opinione la certezza che la strage è stata compiuta per impedire l’accertamento della verità, radicando così la certezza che la tesi accusatoria era fondata. Un boomerang quindi.” per poi concludere che “non resta che ipotizzare che ciò che preoccupa Riina stia nel fuori scena. Cioè in un retroscena delle stragi del 1992-‘93 che non è ancora divenuto processuale, ma che si teme potrebbe divenirlo perché le indagini non si sono mai fermate e prima o poi qualche bocca che sinora è rimasta prudentemente chiusa potrebbe cominciare a parlare , soprattutto se dovesse aprirsi una fase di instabilità politico-istituzionale. Cosa si potrebbe celare di tanto misterioso e terribile nel fuori scena rimasto finora segreto da turbare i sonni di Riina al punto di incitare ripetutamente a compiere gesti eclatanti per scongiurare l’ evento della sua possibile emersione? A questo punto il discorso si fa complicato, perché non può essere più portato avanti mettendo in campo solo personaggi come Riina, Provenzano, ma occorre chiamare in causa quello che Falcone definì il “gioco grande” di cui la mafia ha sempre fatto parte.” (Il Fatto Quotidiano, 16.01.14 – all. 40)

Queste parole, provenienti da un soggetto che non è parte processuale ma che, ciò nondimeno, riveste autorità (personale e professionale, in ragione della carica ricoperta) suonano come un tentativo, proveniente ab externo, di legittimare l’inchiesta e di condizionare il processo. In altre parole il Procuratore Generale ha affermato la importanza non solo attuale di tale processo, ma anche potenziale “Cioè in un retroscena delle stragi del 1992-‘93 che non è ancora divenuto processuale, ma che si teme potrebbe divenirlo”, così esprimendo una valutazione che non può non influire sullo stesso perché indebita in quanto proveniente da chi non è parte processuale. (Il Fatto Quotidiano, 16.01.14 – all. 40)

La miglior conferma di tale tentativo si rinviene in un articolo del Corriere della Sera a firma del dottor Giovanni Bianconi. Il cronista ha scritto “Le minacce di Riina, sostiene più di un PM, sono state utilizzate anche mediaticamente per rilegittimare un processo che era stato incrinato dall’assoluzione del generale Mori per la presunta mancata cattura di Provenzano nel 1995 (ora Mori è imputato anche per la trattativa e gran parte delle fonti di prova sono le stesse).” (Corriere della Sera, 18.01.2014 – all. 41)

Il giornalista ha citato espressamente fonti provenienti dalla Procura della Repubblica e, quindi, autorevoli, secondo le quali “le minacce…sono state utilizzate…per rilegittimare un processo..”. (Corriere della Sera, 18.01.2014 – all. 41)

Si dirà: nemmeno tali (“anonimi” e, lo si afferma senza tema di smentita, in gran numero) Pubblici Ministeri sono parti processuali e, quindi, potrebbe ipotizzarsi un condizionamento al contrario o, anche, una legittima espressione di opinione – da ambo le parti – per nulla idonea ad incidere sulla vicenda processuale. Tuttavia non è così! E non lo è atteso il fatto che il primo partecipa pubblicamente a convegni con i Pubblici Ministeri del processo de quo (e con i testimoni di quel processo), atteso che il primo si palesa con nome e cognome ed altrettanta visibilità mediatica, atteso, infine, che costui è IL Procuratore Generale di Palermo.

Tale circostanza, pertanto, è di estrema ed inaudita gravità. Si noti che il giornalista del Corriere della Sera non ha utilizzato la particella verbale al “condizionale” ma ha scritto “sono state utilizzate”, quindi ha dato per certo e per avvenuto (o comunque tentato) quanto sopra.

E’ evidente allora che se, come sostenuto dal dottor Bianconi (avendolo appreso da ambienti qualificati), queste minacce fossero state utilizzate al suddetto scopo di rilanciare un processo, si verserebbe in altra ipotesi prevista dall’art. 45 c.p.p. perché è incontestabile che il clima, a Palermo, non è sereno ma condizionato.

In tale sede si rileva tale circostanza alla quale va conferita una certa importanza sia in virtù dell’autorevolissimo quotidiano che ha riportato tale tentativo, sia in virtù delle “fonti” del cronista.

Se quanto riportato dal Corriere della Sera (sulla scorta di notizie dirette che il cronista possiede ed ha diffuso) fosse vero, ciò costituirebbe una ulteriore causa di rimessione che si aggiunge a quella più pregnante insita nella gravità delle minacce, comprovate dalle autorevoli dichiarazioni supra riportate. Tuttavia, se così fosse (“sono state utilizzate…per rilegittimare un processo”) vi sarebbero gravissime responsabilità di varia natura a carico di chi, o di coloro i quali, ne sono responsabili.

Ritornando al tema oggetto della presente istanza, è da dire che in data 16 gennaio u.s. diversi quotidiano riportavano la notizia della audizione, in sede di Commissione parlamentare Antimafia, del Direttore del DIS, Ambasciatore Gianpiero Massolo. Costui così si è espresso “E’ necessario mantenere la guardia alta contro la mafia, e le minacce contro i magistrati siciliani sono da prendere sul serio.” (Il Fatto Quotidiano, 16.01.2014 – all. 42)

Ad aumentare la tensione alcuni quotidiani riferivano che, in sede di perquisizione operata a carico di Alberto Lorusso (compagno di socialità del Riina) erano state rinvenute alcune lettere scritte con caratteri propri dell’alfabeto fenicio. Ad inquietare gli investigatori e l’opinione pubblica una lettera contenente le parole (opportunamente decifrate) “attentato”, “Bagarella”, “Provenzano” e “papello”. Com’è agevole rendersi conto, si tratta di riferimenti al processo in corso a Palermo ed, ovviamente, la parola che ha destato il comprensibile ulteriore allarme è stata la prima. (Il Fatto Quotidiano del 17.01.14 ed anche Repubblica del 16.01.14 – all.ti 43)

In data 21 gennaio u.s. il Giornale di Sicilia riportava la notizia della ennesima riunione, avvenuta il giorno precedente (20 gennaio 2014) del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica alla presenza del Ministro dell’Interno.

Appena due settimane dopo la convocazione a Palermo, la estrema gravità della situazione in atto ha, evidentemente, spinto il Ministro Alfano a presiedere un’altra riunione e, per inciso, non è superfluo osservare che nemmeno nel 1992, all’epoca delle note stragi in cui persero la vita i Procuratori Falcone e Borsellino, era stato necessario riunire il Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica ogni quindici giorni.

Il quotidiano titolava “Dal Viminale massima attenzione” e, nel corpo dell’articolo, veniva evidenziato che “A quanto si apprende, nel corso della riunione, si sarebbe discusso anche di come tutelare al meglio i familiari dei magistrati minacciati, le abitazioni, gli uffici, i sistemi di videosorveglianza e le bonifiche dei percorsi.” (Giornale di Sicilia, 21.01.2014 – all. 44)

E’ evidente, alla luce di tali notizie, che in Palermo il pericolo in atto è “generale” sia in senso soggettivo (“i familiari”) che, soprattutto, oggettivo (“le bonifiche dei percorsi”) e come tale investa l’ordine pubblico e la sicurezza ed incolumità pubblica.

In data 23 gennaio u.s. il dottor Di Matteo, dall’aula di udienza (come agevolmente verificabile dalla visione del filmato) ed a margine della stessa, ha rilasciato un’intervista alla Testata Giornalistica Regionale della Rai, mandata in onda nell’edizione serale delle 19.30. In essa, a proposito delle intercettazioni effettuate nei confronti di Riina, così si è espresso “Queste sono intercettazioni giudiziarie disposte nel luglio scorso dal GIP su nostra richiesta e proprio per questo crediamo che Riina non pensava di essere intercettato mentre conversava con Lorusso. Le ipotesi in questo momento io non le posso fare, i dati di fatto sono quelli per cui Riina dice più volte “facciamo presto, organizziamo in maniera eclatante questo attentato e organizziamolo nonostante tutte le misure di sicurezza, facciamo presto”.” ( Tgr RAI – all. 45)

Il giornalista, a questo punto, faceva presente che “Lei ha parlato di tentativi di avvelenare il clima. Questi sono ordini di morte che a molti hanno ricordato un clima già vissuto a Palermo 25 anni fa dopo il fallito attentato all’Addaura.” ed il Procuratore rispondeva “Non possiamo dimenticare che anche rispetto, come ricordava lei nella domanda, ad un giudice come Falcone è all’ episodio di un attentato dinamitardo nei suoi confronti nel 1989 all’Addaura, anche da qualche ambiente istituzionale veniva fuori il sospetto e veniva divulgato il sospetto che addirittura fosse stato il giudice ad auto organizzarsi l’attentato per accrescere il suo prestigio di magistrato antimafia e chissà per quali altri motivi.” (Tgr RAI – all. 45)

Ed ancora, rispondendo alla domanda dell’intervistatore in merito alla correlazione tra tali “ordini di morte pronunciati” e lo svolgimento del processo de quo, dichiarava “E’ un dato di fatto come non soltanto nei miei confronti ma anche nei confronti degli altri colleghi come il dottore Teresi, il dottore Tartaglia, il dottore Del Bene che seguono questo processo e le indagini che sono in corso sempre su questo filone, nell’ultimo anno, c’è stata una escalation di minacce di cui questo episodio delle intercettazioni di Riina costituisce soltanto la punta dell’iceberg.” (Tgr RAI – all. 45)

Il giornalista concludeva il servizio con una inquadratura panoramica della Corte di Assise pronunciando, subito dopo, queste parole: “ed era stato lo stesso Di Matteo ad annunciare in aula, dinnanzi alla Corte e agli avvocati, il deposito agli atti del processo sulla trattativa, di un’altra intercettazione di Riina e di Lorusso del 19 agosto 2013. Da alcune indiscrezioni il contenuto sarebbe estremamente delicato, Riina parlerebbe di Provenzano e del suo ruolo. Tante altre intercettazioni ci sarebbero, queste vicenda è solo all’inizio.” (Tgr RAI – all. 45)

Per inciso, pochi minuti prima del rilascio dell’intervista, durante lo svolgimento dell’udienza, il Procuratore aveva informato gli avvocati dell’avvenuto deposito, presso la propria cancelleria, di altre intercettazioni de quibus.

A differenza di altre occasioni (e delle relative notifiche cartacee relative al deposito di attività integrativa di indagine, all.ti 46) nelle quali non è stato specificato l’atto depositato, questa volta il Procuratore ha dettagliato l’oggetto, affermando che “volevo procedere ad avvisare i difensori degli imputati e le altre parti processuali, che presso la segreteria del Pubblico Ministero è depositata da stamattina una ulteriore intercettazione del colloquio tra Riina Salvatore e il co – detenuto Lo Russo Alberto, che è stata, la cui trascrizione è stata depositata stamattina dagli Ufficiali di P.G. che hanno proceduto all’ascolto, il Centro Operativo Dia di Palermo, ed è relativa alla registrazione effettuata il 19 agosto 2013. Ripeto, è una trascrizione che è stata depositata stamattina e quindi non è stata depositata insieme alle altre per cui vi è stato dato avviso nei giorni scorsi.”. Il Presidente della Corte, quindi, ne ha dato atto a verbale. (Trascrizione informatica della udienza del 23.01.14, pag. 89 – all. 47)

Nulla quaestio: ma non si può negare che oggettivamente ciò costituisce un ulteriore condizionamento dei giudici (togati e popolari) i quali, come ogni cittadino italiano, leggono i giornali, ascoltano i telegiornali (che, come evidenziato, proprio a proposito di tali intercettazioni hanno rilevato che “Da alcune indiscrezioni il contenuto sarebbe estremamente delicato, Riina parlerebbe di Provenzano e del suo ruolo.”) e consapevolmente o anche inconsciamente (ma obbligatoriamente) mettono in relazione l’annunciato deposito di quella intercettazione ed il suo contenuto “estremamente delicato”.

A ciò si aggiunga il riferimento al “ruolo di Provenzano” che, per inciso, aumenta ed aggrava il condizionamento. Invero, secondo l’assunto accusatorio, il Gen. Mori, ed altri, avrebbero “siglato un accordo” proprio con Provenzano, su mandato di altri e con l’ausilio di altri soggetti ancora per ottenere la cessazione della strategia stragista, così commettendo il reato di cui all’art. 338 c.p., contestato nel capo di imputazione (all. 1).

Ma, a prescindere da questo che si è definito, supra, “ulteriore condizionamento”, è da dire che esso è tale proprio in virtù del fatto che si aggiunge ad una situazione ambientale non serena. E la innegabile – ed ultima in ordine di tempo – conferma si rinviene proprio nelle parole del Procuratore Di Matteo al giornalista della Rai – Tgr Sicilia (alle quali si rinvia) che certificano un attuale, immanente, concreto ed inevitabile pericolo per l’ordine pubblico.

Non è superfluo rilevare che, in pari data, il Tg5 trasmetteva, nell’edizione serale delle 20.00, altra intervista telefonica al Procuratore Di Matteo. In essa il Pubblico Ministero, riferendosi alle esternazioni di Riina, ha affermato “Le sue parole, più che costituire delle minacce costituiscono un invito, un auspicio ed un invito al suo interlocutore a fare uscire fuori degli ordini di morte e credo che sia proprio concettualmente sbagliato definirle delle minacce anche perché non c’è nessun elemento concreto, allo stato, per ritenere che Riina in quel momento ed in quel luogo, potesse sospettare né tantomeno essere consapevole di essere intercettato. Si tratta di intercettazioni giudiziarie disposte dal Giudice per le Indagini Preliminari su nostra richiesta.” ed ha aggiunto “Chi parla aprioristicamente di minacce montate appartiene alla stessa schiera di persone che in altri tempi dicevano che l’attentato all’Addaura era una farsa e che addirittura sarebbe stata una farsa organizzata dallo stesso Giovanni Falcone per accrescere il proprio prestigio.” Infine, in merito al suo stato d’animo, il Procuratore ha esternato che “la consapevolezza del pericolo ovviamente l’abbiamo e dobbiamo proseguire tranquillamente e serenamente e cercare di fare il nostro lavoro con determinazione ma anche con la solita serenità ed equilibrio”. (Tg5 del 23.01.2014 – all. 48)

Questa costituisce una ulteriore conferma sulla esistenza di esigenze di ordine, sicurezza ed incolumità pubblica sottese alla presente istanza sulle quali si dirà meglio infra ma, altresì, sulla presenza, a Palermo, di un clima ambientale mefitico (il Procuratore lo ha paragonato al 1989, ai veleni che si abbatterono sul dottor Falcone e su quella estate palermitana, alle lettere del c.d. “corvo” eccetera) e per nulla consono alla celebrazione – in condizioni di distacco e di serenità che devono essere imprescindibili per qualsiasi giudice ed, a maggior ragione, per chi deve giudicare su fatti assai gravi (se fossero veri) e su asserite responsabilità di alti ufficiali dell’Arma, ex Ministri e Presidenti del Senato nonché vicepresidenti del C.S.M. ed altri, ed ancor più a ragione se il Giudice è una Corte di Assise – del presente processo.
Il rilascio della intervista nell’aula di udienza, a tacer d’altro, costituisce la plastica rappresentazione di tale condizionamento ambientale.

Il 24 gennaio u.s. il quotidiano La Repubblica pubblicava un articolo dal titolo “Lettere in codice e altri segreti. I misteri del compagno d’aria che ha fatto parlare Totò Riina”, con eloquente sottotitolo: “Avanti e indietro per quattro metri: così i messaggi sono usciti dal carcere” (Repubblica 24.01.2014 – all. 49). Nell’articolo, dopo essersi soffermato sulla figura di Alberto Lorusso, il giornalista dava atto che il predetto “era a conoscenza che i PM di Palermo, per solidarietà con il pm Nino Di Matteo, avrebbero voluto partecipare tutti all’udienza della trattativa Stato-mafia. La notizia era circolata soltanto sulla mailing list interna dei magistrati. Ma Lorusso lo sapeva.” (Repubblica 24.01.2014 – all. 49)

Ad accrescere ulteriormente la certezza che i messaggi (rectius: “gli ordini”) di morte fossero usciti dal carcere (a parte il dato oggettivo che essi hanno conosciuto, tramite i mass media, la più ampia diffusione), Il Fatto Quotidiano riferiva la notizia (pubblicata anche da L’Espresso) che la moglie del Riina aveva incontrato (filmata dalla DIA) in Puglia la moglie di Giuseppe Rogoli, uno dei fondatori della Sacra Corona Unita e che, a quanto era dato sapere, starebbe maturando il proposito di trasferirsi nel Brindisino. Ma, nel corpo dell’articolo si dava atto, altresì, di un ingente sequestro di tritolo proveniente dalla ex Jugoslavia. Circostanza che, alla luce di tutti gli altri elementi fin qui riportati, non lascia dormire certamente sonni tranquilli. (Il Fatto Quotidiano, 24.01.2014 – all. 50)

Tre giorni prima, il Giornale di Sicilia pubblicava un’intervista al dottor Di Matteo “l’uomo più scortato d’Italia dopo il Presidente della Repubblica” (Giornale di Sicilia, 21.01.2014 – all. 51). Il Pubblico Ministero, nell’occasione, affermava “Tecnicamente e giuridicamente la minaccia è la prospettazione di un male ingiusto che si vuole far percepire al minacciato. In questa conversazione si coglie invece un desiderio di Riina di riuscire a far trapelare all’esterno una volontà di riprendere il percorso delle stragi e non mi pare che questo sia solo una minaccia. Né fino ad oggi è emerso alcun concreto elemento per ritenere che Riina potesse pensare di essere intercettato.” (Giornale di Sicilia, 21.01.2014 – all. 51)

Indubbiamente rispetto a 20 anni fa la mafia è stata indebolita ma la storia della mafia ci dovrebbe indurre a non ripetere gli stessi errori del passato. Più volte la mafia è stata data per sconfitta, ma ogni volta ha saputo risorgere dalle sue ceneri.” (Giornale di Sicilia, 21.01.2014 – all. 51)

Non si può non scorgere in queste parole il riferimento, nemmeno tanto velato (“gli stessi errori del passato”) al 1983 (data della strage in cui perse la vita il dottor Chinnici) e, soprattutto, al 1992.

Ed è proprio affinchè non si ripetano gli stessi errori del passato – e prima che sia troppo tardi – che si chiede, ex art. 45 c.p.p., la rimessione del processo.

La gravità del pericolo è stata anche sottolineata in occasione dell’apertura dell’Anno Giudiziario, dal Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione, dottor Gianfranco Ciani, il quale ha parlato di “minacce di morte a pm, addirittura dall’interno delle carceri” che richiedono “una risposta unanime e della massima fermezza.” (Corriere della Sera, 25.01.2014 – all. 52)

Domenica 26 gennaio u.s. il Fatto Quotidiano pubblicava un’intervista a Gaspare Mutolo, noto per essere stato l’autista di Salvatore Riina. Nel corpo dell’articolo dal titolo eloquente “Mutolo: Di Matteo è nel tunnel della morte”, il collaboratore ha affermato: “Io a Riina lo conosco benissimo. Riina non parla perché vuole dare fiato alla bocca, no. Parla perché lui pensa che fuori c’è qualche fanatico – e ci sarà ancora – che prenderà la palla al balzo. Il problema che bisogna porsi è: riusciranno a fare del male a Di Matteo? Di Matteo è visto dai mafiosi come Falcone nell’85….. Di Matteo sta combattendo, ma l’hanno lasciato solo….”.

Nel prosieguo, al giornalista che chiedeva quale fosse il reale potere di Riina e di cosa nostra, così ha risposto “Qualche potere ce l’ha. Ci sono i figli, non bisogna dimenticarlo. E poi la mentalità non è cambiata.”. Infine, il Mutolo ha ammonito sul fatto che Riina ha parlato “Sapendo di essere ascoltato e con la speranza che qualcuno fuori obbedisca. È uno spietato, lo è sempre stato. Quando qualcuno non si sottomette al suo volere, lo vorrebbe morto. Così faceva con i mafiosi, con le donne e i bambini, con i suoi amici, con i poliziotti, con i magistrati. Chiunque gli si metteva contro lo voleva eliminare. Ha questo carattere. Se c’è qualcuno che tenta di combatterlo o di fargli vedere la verità, lui l’unica cosa che spera è che viene ucciso.” ed ha spiegato il significato della frase pronunciata dal boss corleonese “Il tonno viene preso quando fa il viaggio dell’amore per andare a deporre le uova, o al ritorno. L’operazione della pesca è complessa. Vengono gettate le reti, le tonnare, che sono divise in diverse camere. Ma quando il pesce entra nella camera, non ha più scampo: dalla prima arriverà all’ultima, la camera della morte. Ed è in gabbia, non si può muovere, non può tornare indietro. Alla fine del tunnel c’è la mattanza: il tonno viene ucciso violentemente. Di Matteo ha preso quel tunnel lì di combattere la mafia, perché tutti i processi importanti ce li ha anche Di Matteo, e quindi è come se fosse entrato nella camera della morte. Anche il magistrato ha un passaggio obbligato, tutti i giorni: va al Palazzo di giustizia e torna a casa. È come i tonni, che seguono sempre la stessa rotta, all’andata e al ritorno del loro viaggio: si chiama la strada della morte. Se vuole, lo Stato è più forte di tutto questo: Di Matteo non deve essere abbandonato dallo Stato e dal governo.” (Il Fatto Quotidiano 26.01.14 – all. 53)

Tre giorni dopo, il Procuratore Di Matteo, intervistato da Sky Tg24, ha affermato senza mezzi termini: “Riina, e ne abbiamo contezza da indagini anche relativamente recenti almeno fino a pochi anni fa è stato e forse lo è ancora, il vero capo di cosa nostra. Abbiamo contezza attraverso intercettazioni ambientali di non più di quattro o cinque anni fa che i capi di cosa nostra in libertà per poter prendere determinate decisioni importanti per l’organizzazione da un punto di vista strategico ancora si ponevano il problema di ascoltare quella che era la definitiva decisione di Salvatore Riina e questo a distanza di molti anni dalla sua carcerazione e quindi è chiaro che un messaggio di morte, un ordine di morte da parte di Salvatore Riina può potenzialmente, speriamo di no, essere recepito da parte dell’organizzazione mafiosa cosa nostra probabilmente anche da parte di altre organizzazioni di tipo mafioso, di tipo criminale in generale. Salvatore Riina non è un personaggio qualunque; è stato a lungo e forse lo è tuttora il capo di cosa nostra, è stato un soggetto che in passato, da capo, ha anche coordinato tutta una serie di rapporti criminali con la camorra campana e con la sacra corona unita e con la ‘ndrangheta. Un esponente mafioso di livello, poi divenuto collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, nel parlare di Salvatore Riina e nel definirne il ruolo nelle organizzazioni criminali del nostro paese non lo ha soltanto definito il capo della commissione regionale di cosa nostra ma il coordinatore di tutte le attività criminali mafiose anche della camorra, della ‘ndrangheta e della sacra corona unita. La storia, la triste storia del suo protagonismo mafioso induce oggi a prestare particolare attenzione e a non sottovalutare, come alcuni rischiano di fare, le sue indicazioni e le sue parole. (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

Ancor più esplicitamente, il Procuratore ha evidenziato “Ancora fino a pochi anni fa, ne abbiamo la certezza, attraverso delle intercettazioni ambientali, i capi della mafia palermitana in quel momento in libertà si ponevano il problema che per fare rientrare dagli Stati Uniti d’America alcuni parenti degli Inzerillo, i famosi Inzerillo della guerra di mafia dei primi anni ’80, avevano la necessità di acquisire il consenso di Salvatore Riina. Quei capimafia, allora in libertà, sto parlando di Antonino Rotolo, di Antonino Cinà, sto parlando di Bonura e indirettamente anche di Provenzano, fino al 2006, era stato consultato anche su questo tema del possibile rientro dei cosiddetti scappati dagli Stati Uniti d’America, avevano la consapevolezza di non potere decidere senza il consenso di Totò Riina. Quindi questo significa che almeno fino al 2005-2006, quando quelle intercettazioni sono state fatte, Salvatore Riina a distanza di 14 o 15 anni dal suo arresto, il 15 gennaio 1993, era ancora considerato dai capimafia in libertà il vero capo.” (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

Il dottor Di Matteo ha precisato, ulteriormente, che “E’ improprio parlare di minacce. La minaccia è la prospettazione di un male ingiusto ad una persona, che il minacciante sa che in quel momento ascolta. Fino a prova contraria non abbiamo nessun elemento concreto per ritenere che Salvatore Riina avesse la certezza e la consapevolezza di essere intercettato in quel momento. Ecco perché ritengo che più di minacce si debba parlare di captazioni della intenzione di Totò Riina di portare all’esterno una sua volontà omicidiaria e stragista nei confronti dei magistrati di Palermo.” (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

Il magistrato, quindi, ha aggiunto che “Noi e la procura di Caltanissetta dobbiamo certamente capire se la presenza di Lorusso sia casuale e in ogni caso dobbiamo cercare di capire il personaggio Lorusso, anche in considerazione del fatto che dalle perquisizioni che sono state fatte nella cella del Lorusso, è venuto fuori anche il dato della sua particolare propensione e capacità di far uscire all’esterno, attraverso la criptazione di messaggi apparentemente leciti anche appunto dei veri e propri messaggi criptati” e puntualizzava che “Certamente non mi stupirei se contatti tra organizzazioni criminali diverse, cosa nostra, sacra corona, ‘ndrangheta e camorra fossero tuttora esistenti e importanti.” (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

In occasione dell’intervista a Sky Tg 24, il Procuratore ha anche rilevato delle analogie tra quanto sta accadendo oggi e quanto verificatosi negli anni delle stragi di mafia: “ Le analogie consistono in quella che è stata una escalation di minacce anche anonime che caratterizzò anche gli anni tra l’89 ed il 92 e non solo minacce anonime ma anche di esposti anonimi molto particolareggiati che riguardavano ciò che accadeva all’interno degli apparati investigativi e giudiziari. Anche oggi abbiamo registrato lo stesso fenomeno. Per fortuna, dicevo, ci sono le differenze: e la differenza fondamentale, a mio parere, è quella di una diversa consapevolezza dell’opinione pubblica. L’aspetto più confortante di questi ultimi mesi, di queste vicende, è stato mi creda, il constatare come tanti semplici cittadini anche al di fuori delle attività delle associazioni antimafia, ma proprio tanti semplici cittadini abbiano manifestato nei nostri confronti solidarietà, che non è una solidarietà acritica ma è una pretesa di verità e di giustizia.” (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

Ed, alla luce degli elementi rassegnati all’interlocutore, ha concluso: “Non avere paura sarebbe in queste situazioni, in questi contesti, da sciocchi. Nel momento in cui facessimo prevalere la paura sull’impegno sarebbe più serio e più coerente abbandonare la toga o comunque fare un altro lavoro. Fino a quando indossiamo la toga e ci occupiamo di determinate cose dobbiamo fare prevalere la voglia di andare avanti sulla paura.” (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

Per inciso, si può davvero pensare, ipotizzare e seriamente sostenere che, dinnanzi a tale situazione e dinnanzi ad un Procuratore della Repubblica tutelato con siffatte misure di sicurezza e che, ciò nonostante, ammette di avere paura, la serenità dei giudici di una Corte di Assise non venga turbata?

E’ innegabile e non smentibile, che da tali paure, da tali timori per una azione così eclatante ed espressamente annunciata – la quale potrebbe compiersi in ogni momento con modalità stragiste ed anche in occasione della celebrazione del processo – non siano esenti e non possano (ragionevolmente, anzi, umanamente) esserlo nemmeno i giudici della Corte di Assise di Palermo i quali, da tali informazioni e da tali vicende ormai di dominio pubblico, sanno in coscienza che ogni volta che si recano in udienza sono esposti a cotanto rischio per la loro incolumità personale. Ciò, indubbiamente, influisce sulla loro serenità.

Ritornando a quanto dichiarato dal dottor Di Matteo a Sky Tg24, è da dire che si tratta di parole ancora una volta eloquenti, che non necessitano ulteriori commenti ma, semmai, una sola puntualizzazione, semmai ve ne fosse bisogno.
Le intercettazioni di Riina e Lorusso sono state depositate a beneficio delle difese e riportate fedelmente dai quotidiani solo a partire dal 20 gennaio u.s.. Dal tenore di queste si evince la conferma dell’esattezza di quanto divulgato dalla stampa anche prima di avere la materiale disponibilità dei documenti e sulla base di semplici indiscrezioni, che si sono dimostrate fondate e fedeli alla realtà.

E’ opportuno precisare che da tali intercettazioni (alcune delle quali allegate a titolo dimostrativo dell’esattezza di quanto sostenuto, non solo in tale sede, ma ben più autorevolmente dagli addetti ai lavori) si evince, in primis, che Salvatore Riina è un uomo lucido che non sa di essere intercettato.

Tale assoluta certezza deriva dalle parole del dottor Di Matteo, il quale ha precisato che “In questi mesi in cui sostanzialmente abbiamo ascoltato ogni giorno, le conversazioni di Salvatore Riina non abbiamo avuto nessuno segno del suo deterioramento mentale. Appare al contrario in condizioni di assoluta lucidità e appare assolutamente presente a se stesso in ogni momento della sua giornata.” Posta tale premessa, il magistrato ha chiarito che “Noi intercettavamo anche le conversazioni che Riina con quel detenuto aveva sempre nelle ore di socialità in un locale chiuso. Bene, al chiuso, forse sospettando di essere intercettati, i due parlavano esclusivamente delle condizioni climatiche, di sport o di argomenti vari, certamente non rilevanti dal punto di vista dell’indagine penale.” ed ha aggiunto “Fuori invece le conversazioni riguardavano altri argomenti sulla storia di cosa nostra, prima ancora che sui progetti che Totò Riina esternava, invitando il suo interlocutore a farli uscire all’esterno e che riguardano la possibile, auspicata da Riina, ripresa della strategia stragista.” (Sky Tg 24 del 1 febbraio 2014 – all. 54)

La innegabile conferma di ciò è data dalle conversazioni nelle quali il boss corleonese ammette, cosa mai fatta in precedenza, di aver commesso le stragi di Capaci (definita “una mangiata di pasta”) e di via D’Amelio, soffermandosi anche sul quantitativo di esplosivo utilizzato. (Intercettazione 6.08.2013 – all.ti 55)

Il 26 ottobre 2013 parlando del PM di Palermo, Riina affermava: “Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono” ed, al suo interlocutore, precisava “Inizierei domani mattina” sottolineando che “Ho una rabbia…mi sento ancora in forma”. (Intercettazione 26.10.2013 – all.ti 55)

Quindi, in un crescendo inequivocabile, chiedeva a Lorusso: “Lo sapete come gli finisce la carriera? Come gliel’hanno fatta finire a quello palermitano, a quello il Pubblico Ministero palermitano… (Castiglione, rectius Scaglione n.d.r.) A quello gli finisce lo stesso” ed, infine, in merito alle stragi, concludeva con un eloquente riferimento ai magistrati di Palermo “Ma che volete? Allora ancora ne volete. Io vorrei incominciare di nuovo, vorrei incominciare di nuovo.” per poi ridere compiaciuto. (Intercettazione 26.10.2013 – all.ti 55)

Il boss corleonese, quindi, dopo aver confessato le stragi, ivi compresa quella del giudice Chinnici e del Gen. Dalla Chiesa (Intercettazione 6.11.2013 – all.ti 55) continuava a declinare i suoi propositi stragisti “Io Ve l’ho detto ieri, deve succedere un manicomio, deve succedere per forza..” ed esplicitava l’ordine ai suoi sodali “Intanto io ho fatto il mio dovere, ma continuate, continuate qualcuno, non dico magari tutti, ma qualcuno, divertitevi, una scopettatona (fucilata n.d.r.) nella testa di questi cornuti” “L’ultimo se mi riesce sarà più grosso più… se mi ci metto (ride e gesticola) con una bella compagnia di anatroccoli “pa..pa..pa..pa..patapompiti” (gesticola con la mano e fa il gesto di un botto) così a chi peschiamo, peschiamo e non se ne parla più. Perché sono degni di questo, sono degni di questo….. non devo avere pietà di questi come loro non hanno pietà.” (Intercettazione 30.10.2013 – all.ti 55)

In un crescendo criminale il Riina dapprima negava al Lorusso i suoi propositi stragisti, pur rivendicando il suo pensiero (“Riina poi è quello, è quello del tonno…si cagano…”) e, poi, affermava: “Il rospo se lo devono inghiottire, non ho niente da fare. Stiano attenti perché come dicono loro devono stare attenti, giusto stanno attenti, perché..” e precisava che “Questi, quelli di Palermo, questo Di Matteo, Di Matteo non lo possiamo dimenticare più…Corleone…ah?”. Infine, dinnanzi alle osservazioni del suo interlocutore che gli faceva presente le imponenti misure di sicurezza, con tono sarcastico, rilevava “Ah, lo debbono mettere in un rifugio segreto….mannaggia la morte…ride” e, per nulla preoccupato delle contromisure, sentenziava “Deve venire al processo” (Intercettazione 14.11.2013 passeggio – all.ti 55)

Qualche giorno dopo, ancor più esplicitamente, pronunciava quelli che, a leggere le intercettazioni, a ragion veduta sono stati definiti “ordini di morte”. Egli, dopo aver esordito con un inequivocabile “si devono preoccupare vedendo questo mucchio di persone non sapendo che il botto viene più bello, più grosso”, così si è espresso con riferimento ai magistrati di Palermo: “E allora organizziamola questa cosa, facciamola grossa e dico e non ne parliamo più.” ed ancora “una esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo con i militari.”, “Gliela faccio finire peggio di, del giudice Falcone” (Intercettazione 16.11.2013 – all.ti 55)

Il contenuto di tali intercettazioni non lascia adito ad interpretazioni. Ed è ancor più raccapricciante ed eloquente ove non ci si limiti alla trascrizione, ma si guardi ed ascolti direttamente l’eloquio del protagonista.

Non a caso il Procuratore Ingroia, in un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano ha scritto “Che accadrebbe in un Paese normale se il capo dell’organizzazione criminale più potente e violenta, responsabile di stragi e omicidi politici, condannasse a morte il magistrato più esposto, rivendicasse
con efferato orgoglio di avere ucciso altri giudici e lanciasse messaggi obliqui al mondo politico, fino a tirare in ballo perfino il Capo dello Stato? È facile immaginare che scatterebbero severi provvedimenti governativi, cadrebbero teste, i media si mobiliterebbero, i magistrati verrebbero protetti al massimo livello. Ma qui tutto è alla rovescia, perfino il senso comune. E allora è meglio rammentare che Riina non è un vecchio mafioso in disarmo, bensì ancora oggi il capo di Cosa
Nostra, seppur detenuto al 41-bis, anche perché nessuno dei boss attualmente latitanti, neppure il mitizzato Matteo Messina Denaro, ha il carisma per diventare il nuovo “capo dei capi”. E bene hanno fatto i pm di Palermo a depositare quelle intercettazioni ambientali agli atti del processo sulla “trattativa Stato- mafia”, trattandosi delle esternazioni del capo di Cosa Nostra in carica, imputato in
quello stesso processo. Conversazioni importanti in quanto genuine, dove Riina dice quello che oggi pensa e vuole.” (Il Fatto Quotidiano 31.01.2014 – all. 56)

Il Procuratore ha, poi, aggiunto “Questo è il clima sempre più pesante che si respira dentro quel Palazzo che sembra tornare a emettere quei veleni che lo hanno reso tristemente famoso ai tempi di Falcone e Borsellino, accerchiati da colleghi livorosi.” ed ha concluso “Proprio un brutto clima, che negli ultimi anni torna ad assomigliare troppo a quello terribile della fine degli anni 80 che ha poi prodotto la stagione sanguinosa dei primi anni 90. Non un clima innocente. Come non lo era quello della stagione dei corvi e dei veleni che precedette la stagione delle bombe. Mentre Riina manda messaggi all’esterno e punta il dito contro la magistratura indicata come male assoluto. Ma non lo fa parlando all’esercito degli uomini d’onore, non più disposti ad affrontare una nuova guerra contro lo Stato. Sta invece dialogando a distanza con altri interlocutori. E parla a nome dell’intero sistema criminale mafioso.” (Il Fatto Quotidiano 31.01.2014 – all. 56)

Il riferimento all’ “intero sistema criminale mafioso” fa il paio con quanto affermato dal dottor Di Matteo a Sky Tg24 sul conto di Riina (“il coordinatore di tutte le attività criminali mafiose anche della camorra, della ‘ndrangheta e della sacra corona unita” – all. 54)

E’ evidente, in conclusione e salvo quanto si dirà infra, che sussiste a Palermo il concreto rischio di “perpetrazione di atti violenti in danno di un numero indeterminato di persone o di uno o più dei soggetti che partecipano al processo.” (Cassazione penale, sez. I, 30/01/1996, n. 634 – Tetamo) e che ciò giustifica la rimessione del processo ex art. 45 c.p.p..

A tale pericolo sono esposti, in primis, i Pubblici Ministeri de quibus, ma anche tutti coloro che, a vario titolo, partecipano al processo in corso a Palermo. La rimessione, determina il venir meno di tale situazione; basti considerare il fatto che il Riina ha minacciato i PM e, specificamente, quelli di Palermo.

In diritto

Preliminarmente va ricordato che “In materia di rimessione del processo, ai sensi degli art. 45 e seguenti c.p.p., la Corte di cassazione, come si desume dall’art. 48 comma 1, dello stesso codice (nel quale è previsto il potere, per la Corte medesima, di assumere, “se necessario”, le opportune informazioni), è giudice anche del fatto; il che implica, fra l’altro, che essa ha poteri d’ufficio di ricerca della prova della effettiva esistenza dei presupposti legittimanti la rimessione, relativamente ai quali le parti sono invece tenute ad un mero onere di allegazione.” (Cassazione penale, sez. I, 16/03/1994 – Ricciardi)

Ciò posto, l’art. 45 c.p.p. dispone che “In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica o determinano motivi di legittimo sospetto la corte di cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell’imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell’articolo 11.”

Il tenore letterale della nuova norma, così come riformata dalla Legge n. 241/2002, non lascia spazio ad equivoci (così come del resto la vecchia formulazione) sia per ciò che concerne le ipotesi, tassativamente stabilite, che possono giustificare la rimessione del processo (sulle quali si dirà infra), sia con riferimento ai “requisiti” dei turbamenti idonei ad arrecare pregiudizio alla correttezza della funzione giudiziaria e del suo sereno svolgimento.

Una breve disamina impone di verificare, in primis, se, nel caso specifico, sussista una “situazione” dotata dei requisiti previsti dalla norma. Tale accertamento è pregiudiziale all’altro (relativo alle tre distinte ipotesi di rimessione) atteso che, ove essa sia inidonea, nel senso richiesto dall’art. 45.c.p.p. o, addirittura, insussistente, l’indagine deve necessariamente fermarsi.

A norma dell’art. 45 c.p.p., perché possa addivenirsi alla rimessione del processo, è richiesta la presenza di “gravi situazioni” le quali devono, a loro volta, possedere tre distinti requisiti: devono avere carattere “locale”, essere “tali da turbare lo svolgimento del processo” ed, infine, essere “non altrimenti eliminabili”.

La Suprema Corte ha ribadito, con orientamento costante, che “per grave situazione locale deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l’ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza” (Cassazione penale, sez. un., 27/01/2003, n. 13687 – B.; in senso conforme Cassazione penale, sez. IV, 07/11/2007, n. 4170 – G.; Cassazione penale, sez. V, 27/04/2011, n. 22275)

Il Giudice di legittimità ha, ulteriormente precisato che “Il presupposto legittimante la rimessione del processo ex art. 45 c.p.p. è rappresentato dalle gravi situazioni locali che, pregiudicando la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo, ovvero la sicurezza e l’incolumità pubblica, rende inevitabile la “traslatio iudicii”, per l’assenza di altre possibilità di rimuoverne le cause o gli effetti. Tali situazioni devono essere estranee alla dialettica processuale, oggettivamente capaci di attentare all’imparzialità del giudizio.” (Cassazione penale, sez. V, 09/11/1995, n. 2560 – C.)

Da tale pronuncia si evince chiaramente che la rimessione è legittima (e doverosa) nel caso di “situazioni estranee alla dialettica processuale”. Alla luce di ciò non può sussistere alcun dubbio sulla ricorrenza dei presupposti per la rimessione, a meno di non voler sostenere, contro ogni logica ed evidenza ed anche contro i timori dei massimi responsabili della sicurezza pubblica, che “l’ordine di eliminarci” del Riina rientri nella normale dialettica processuale e non produca alcun riflesso sulla serenità e correttezza del giudizio.
Per inciso, non è superfluo rilevare che Riina non ha pronunciato le parole de quibus in ambito processuale, sicchè è da escludersi in radice che si possa parlare di “dialettica processuale”.

Ciò posto, in virtù delle considerazioni di cui sopra relative alle minacce (rectius “l’ordine di eliminarci” per usare le esatte parole del dottor Di Matteo, il quale ha dichiarato “qui lo stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista”. Il Fatto Quotidiano 18.12.13 – all. 31) proferite da Salvatore Riina nei confronti dei Pubblici Ministeri di Palermo che si stanno occupando del processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia, non possono sussistere dubbi di sorta sul fatto che esse siano obiettivamente molto serie e configurino, quindi, quelle “gravi situazioni” previste dall’art. 45 c.p.p..

Con riguardo alle “gravi situazioni” la Suprema Corte ha ritenuto che “Per l’accoglimento dell’istanza di rimessione del procedimento penale è necessario che le eventuali situazioni locali siano gravi e non basate su mere supposizioni dell’imputato.” (Cassazione penale, sez. V, 15/07/2011, n. 41694 – H.)

Essa ha ulteriormente precisato che “Le norme sulla rimessione (art. 45 s. c.p.p.), in quanto rappresentano una deroga alla competenza del giudice naturale precostituito per legge, di cui all’art. 25 comma 1 cost., devono essere interpretate restrittivamente ed applicate ai casi tassativamente previsti, con la conseguenza che sono rilevanti soltanto quelle situazioni obbiettive che risultino realmente idonee a fuorviare la correttezza e la serenità del giudizio e che i prospettati impedimenti alla libertà di determinazione dei soggetti che partecipano al processo devono emergere da dati di fatto certi e univocamente significativi.” (Cassazione penale, sez. I, 21/02/1996, n. 1169 – Lamberti; in senso conforme Cassazione penale, sez. I, 15/04/1991 – Astarita)

In altre parole, secondo i giudici di legittimità non è sufficiente la mera possibilità di tensioni e turbamenti dell’ordine pubblico (cui, di regola, devono far fronte le forze di polizia, nell’ambito dei compiti di prevenzione loro assegnati) ma, ai fini dell’applicabilità dell’istituto della rimessione, essi ritengono necessario che “la situazione paventata e addotta a sostegno della richiesta di rimessione emerga in modo ragionevolmente certo” (Cassazione penale, sez. I, 23/02/1993 – Goddi e altro), vale a dire, che il pericolo sia concreto, reale, effettivo.

E la concretezza di tali “ordini di morte” si desume, oltre che dalle affermazioni del dottor Di Matteo, anche dalle concordi dichiarazioni – supra richiamate ed alle quali si rinvia – del Ministro dell’Interno, dell’On. Lumia, del Procuratore Nazionale Antimafia, del Procuratore di Caltanissetta per citare alcune delle tante personalità.

La grave situazione di cui all’art. 45 c.p.p. deve essere innanzitutto “locale”, cioè caratteristica, propria e, quindi, peculiare di un determinato posto.
Nel caso de quo il requisito è pienamente integrato, sol che si ponga mente ad alcuni dati oggettivi: il Riina ha minacciato (rectius ha dato “l’ordine di eliminarci”) i Pubblici Ministeri di Palermo (vale a dire soggetti ben definiti) ed, ancor più dettagliatamente, solo e specificamente coloro i quali si occupano del processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia. Processo che si tiene a Palermo, ossia in una città, in un luogo ben preciso che, per avventura, è disgraziatamente il “cuore pulsante” dell’organizzazione mafiosa denominata “cosa nostra”, come dimostrano le tristi vicende che l’hanno insanguinata a partire dai primi anni ’80 (la c.d. “guerra di mafia”), per continuare con i c.d. “delitti eccellenti” ed arrivare fino alle stragi in cui perirono i dottori Falcone e Borsellino.

Il capo mafioso ha, poi, più volte fatto riferimento a situazioni e precedenti localizzati esclusivamente nell’area palermitana, chiarendo in maniera puntuale anche i luoghi dove egli intende portare il suo attacco stragista.

Il fatto che il pericolo sia localmente radicato (e nei confronti, come visto, di soggetti “localmente, territorialmente e funzionalmente ben radicati”), è inconfutabile oggettivamente e soggettivamente.

La “località” della grave situazione emerge dalle parole del dottor A. Bolzoni, riportate sul quotidiano La Repubblica, ed inerenti un incontro con uno dei Pubblici Ministeri oggetto delle minacce, il dottor Di Matteo. Ha scritto il cronista: “Volevano portarcelo con un blindato a Milano, tipo quelli che il nostro esercito usa in scenari di guerra come l’Afghanistan e l’Irak. Troppo pericoloso spostarsi. Troppo pericoloso restare anche a Palermo per Di Matteo. Non va più a nuotare alle 7 del mattino. Non va più alla “Favorita”, alle partite. Ogni tanto i suoi «angeli custodi» lo trascinano in qualche caserma -sempre diversa – dove si fa mezz’ora di jogging.” (Repubblica 17.12.13 – all. 34)

Il dottor Di Matteo, nell’occasione, ha aggiunto, a riprova della fondatezza del pericolo “questa volta c’è la faccia di Totò Riina ripresa da una telecamera, c’è la sua voce registrata da un microfono. «Se mi torcono un capello, questa volta c’è la prova…E’ lì, nel video.»” (Repubblica 17.12.13 – all. 34)

La norma richiede, altresì, che la grave situazione di cui all’art. 45 c.p.p. sia tale “da turbare lo svolgimento del processo”

Nel caso specifico il turbamento allo svolgimento del processo è la tanto logica quanto inevitabile conseguenza di minacce serie, inequivocabili ed estremamente concrete rivolte proprio ai Pubblici Ministeri di quello stesso processo, sicchè non può revocarsi in dubbio l’esistenza di un rapporto di causalità tra le une e l’altro.

Tali esternazioni determinano, altresì, un turbamento alla coscienza individuale e collettiva perché ripugna alle stesse che chi ha già ucciso barbaramente altri magistrati con le stesse cruente modalità possa – ancora e mai domo – manifestare i medesimi propositi stragisti nei confronti di altri magistrati, colleghi dei primi.

La miglior riprova di questa inquietudine, di questo sconvolgimento delle coscienze si rinviene nelle numerose manifestazioni organizzate dalla c.d. società civile a sostegno dei magistrati minacciati. Così, nel novembre u.s., all’indomani delle prime minacce del Riina “Per un pomeriggio, la piazza attorno al teatro Massimo è diventata il palcoscenico di una grande manifestazione antimafia, come da tanti anni non se ne vedevano a Palermo. Erano più di duemila al corteo organizzato per solidarizzare con il pm Nino Di Matteo e con i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia, minacciati di morte da Totò Riina.” (Repubblica 19.11.13 – all. 57)

Inequivocabile la consapevolezza dell’immanente pericolo ed il parallelismo con il 1992, rappresentato da due dei tanti cartelloni affissi, in quella occasione, sulla cancellata del teatro Massimo “«Palermo che vuole vivere è presente», «Risvegliamo le coscienze prima delle autobombe»” (Repubblica 19.11.13 – all. 57)

Altra manifestazione, dello stesso tenore ed a seguito delle ulteriori minacce proferite dal boss corleonese, si è svolta a Palermo il 20 dicembre u.s., nello stesso giorno in cui si è recata nel capoluogo siciliano una delegazione del Consiglio Superiore della Magistratura per solidarizzare con i magistrati oggetto di tali esternazioni del Riina; un corteo – che ha visto anche la partecipazione dell’ormai ex collega, dottor Ingroia – si è snodato da Piazza Politeama ed ha raggiunto il Palazzo di Giustizia. (Repubblica.it 20.12.13 – all.ti 58)

Ed, infine, è recentissima la “convention” tenutasi a Palermo il 12 gennaio u.s. di cui si è supra detto; la locandina dell’evento (cfr. n. 2 fotografie – all.ti 59) affissa nella bacheca del teatro Golden denota le finalità della manifestazione. In essa, in basso a sinistra, si legge “NOI STIAMO CON IL PM NINO DI MATTEO E CON TUTTI I MAGISTRATI MINACCIATI” e, in basso a destra, campeggia una fotografia del dottor Di Matteo con una scritta che non lascia spazio a interpretazioni: “CONDANNATO A MORTE DALLA MAFIA”.

Ed anche tali ansie, tali stati di agitazione in conseguenza delle suddette minacce si riverberano sul processo determinando ulteriore turbamento allo svolgimento dello stesso, oltre a quello – ben più grave – originato autonomamente dal “l’ordine di eliminarci” dato da Riina all’indirizzo dei Pubblici Ministeri di quel processo.

Come si può ragionevolmente sostenere che lo svolgimento del processo a Palermo non risenta e non sia, quindi, seriamente turbato da tali minacce (rectius ordini di morte) di inaudita gravità, dalle reazioni di soggetti qualificati che ne suffragano la fondatezza e la concretezza, dalle affermazioni del Ministro dell’Interno che parlano della “tentazione di una ripresa della strategia stragista dopo tanti anni di silenzio”, da un pericolo ritenuto talmente serio da indurre il massimo Responsabile della sicurezza pubblica in Italia a far ricorso a mezzi propri di una vera e propria guerra (il carro armato “Lince” ed il Bomb Jammer)?

Come si può sostenere che ciascun individuo, ciascun cittadino non sia turbato da tali vicende e resti indifferente, imperturbabile, impermeabile alle stesse? E, quindi, come si può affermare in coscienza che anche tutti i protagonisti (e, tra questi, evidentemente anche i giudici del processo, che prima ancora di essere giudici sono persone, uomini e donne, cittadini italiani) non siano toccati da questi avvenimenti, dallo spettro immanente e concreto di nuove, efferate e sanguinose stragi?

Sicchè è evidente che il “turbamento allo svolgimento del processo” è in re ipsa, è insito nella eccezionale gravità di tali “ordini di morte” che induce a vivere, partecipare ed operare nel processo (nelle diverse vesti dei distinti protagonisti) nel costante timore di un attentato! Negare tale circostanza significa negare l’evidenza ed anche il pericolo!

Per inciso, la Suprema Corte ha osservato che “Sebbene non possa affermarsi il principio per cui deve farsi luogo a rimessione del processo quando, verificandosi le condizioni che potrebbero legittimare l’astensione da parte del p.m., questi non si avvalga della relativa facoltà, tuttavia sussistono i presupposti della rimessione quando si sia creato tra l’ufficio del p.m. e l’imputato un clima di tensione e di esacerbata contrapposizione, alimentata anche da considerazioni di ordine personale. In tali ipotesi, infatti, la stessa libertà di autodeterminazione del p.m. può essere pregiudicata, con conseguenti riflessi negativi sulla serenità e correttezza del giudizio, dai condizionamenti derivanti da una conflittualità preconcetta ed abnorme, idonea a far velo ad una visione sufficientemente distaccata della vicenda processuale, quale anche il p.m. deve avere.” (Cassazione penale, sez. I, 06/04/1993 – Baietta)

Nel caso specifico, non vi è semplicemente “un clima di tensione e di esacerbata contrapposizione alimentata anche da considerazioni di carattere personale” (che il Giudice di legittimità ha ritenuto già di per sé sufficiente a determinare la rimessione) – perché essa non vi è mai stata, non si è mai verificata all’interno dell’aula di giustizia – ma vi è un vero e proprio ordine del Riina di uccidere, ricorrendo a modalità stragiste, i Procuratori di Palermo!

Un’ultima notazione sul punto, anche a costo di sembrare ripetitivi: “l’ordine di eliminarci” proveniente dal Riina ha determinato, come visto, l’attenzione massima degli “addetti ai lavori” e dei più alti rappresentanti dell’ordine pubblico in Italia, i quali si sono mostrati estremamente sensibili al problema, tanto da offrire ai Pubblici Ministeri di Palermo “«ogni disponibilità che è nei poteri dello Stato di dare. Oltre quello che abbiamo messo a disposizione non c’ è nulla in natura».”, come ha riferito il Ministro dell’Interno. (Repubblica 17.12.13 – all. 32).

Si può davvero credere e, soprattutto, far credere che a cotanta sensibilità ai più alti livelli istituzionali corrisponda un assoluto distacco, indifferenza, insensibilità, imperturbabilità, impassibilità ed incondizionabilità dei protagonisti, nessuno escluso ed in primis i giudici, del processo che si svolge innanzi alla Corte di Assise di Palermo?

L’art. 45 c.p.p. richiede, infine, che la “grave situazione” sia “non altrimenti eliminabile”, vale a dire non rimediabile con particolari accorgimenti o cautele; in sostanza non dev’essere in altra maniera contenibile o rimovibile.

Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che “In materia di rimessione del processo (art. 45 c.p.p.), il legislatore ha posto l’ulteriore limite che le situazioni tali da legittimare l’applicabilità di detto istituto siano non altrimenti eliminabili: deve trattarsi di situazioni, cioè, cui non possa porvi rimedio con l’adozione di speciali accorgimenti e cautela idonei ad impedire l’insorgenza di tumulti o la perpetrazione di atti violenti in danno di un numero indeterminato di persone o di uno o più dei soggetti che partecipano al processo ovvero con il ricorso agli altri strumenti predisposti dall’ordinamento per i casi di possibili alterazioni del corso normale della giustizia.” (Cassazione penale, sez. I, 30/01/1996, n. 634 – Tetamo)

In merito è sufficiente richiamare, brevemente, alcuni dati oggettivi: in primis l’esperienza dimostra ed insegna che “cosa nostra” ha sempre portato a termine, con ogni mezzo ed a qualunque costo i suoi ordini di morte (le stragi del 1992 sono l’esempio più eclatante).

Nel caso specifico, inoltre, dalle parole di Riina (“lo faremo in modo eclatante” “facciamola grossa e non ne parliamo più” “Dobbiamo fare un’esecuzione come quando c’erano i militari a Palermo”), da quelle del Ministro dell’Interno (“Non possiamo escludere la tentazione di una ripresa della strategia stragista dopo tanti anni di silenzio”), da quelle del dottore Di Matteo (“qui lo stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista, sospesa vent’anni fa con la lunga Pax Mafiosa seguita alla trattativa.”) si evince la inevitabilità del pericolo, confermata dal ricorso a mezzi eccezionali – veri e propri strumenti impiegati in guerra (“Lince” e Bomb Jammer) – ma neanche questi idonei, per le considerazioni supra svolte, a garantire la sicurezza.

Infine, la prognosi sul fatto che il pericolo verrebbe meno spostando il processo va fatta indubbiamente ex ante, ma solo ex post può si potrà avere la relativa certezza.

E ciò vale sia per i tumulti (in presenza di tumulti o disordini in una città si può determinare rimessione ex art. 45 ma solo dopo la stessa, se essi non si dovessero verificare nella nuova sede, si avrà certezza del fatto che il “pericolo non altrimenti eliminabile” è venuto meno) che per la “la perpetrazione di atti violenti in danno di un numero indeterminato di persone o di uno o più dei soggetti che partecipano al processo” (in presenza di concreti e gravi “ordini di morte” – all’indirizzo di Pubblici Ministeri di una determinata città, che seguono un processo che si svolge in quella determinata città – tali da determinare pericoli per l’incolumità pubblica in quella città si può determinare rimessione ex art. 45 ma solo dopo la stessa – se tali minacce, ovvero “l’ordine di ucciderci” – non si dovessero verificarsi nella nuova sede, si avrà certezza del fatto che il “pericolo non altrimenti eliminabile” è venuto meno).

Invero, il venir meno del pericolo per effetto della rimessione non può essere conosciuto con certezza prima della stessa, sicchè la prognosi va inevitabilmente compiuta in termini di “ragionevole certezza” alla luce degli elementi a disposizione al momento in cui si è investiti della decisione de qua. Viceversa, se si dovesse ritenere necessaria una effettiva certezza (che nessuno può avere in quanto nessuno è in grado di prevedere il futuro), la portata dell’art. 45 c.p.p. verrebbe svuotata di ogni significato, in spregio anche di ogni interpretazione logico-sistematica perché saremmo in presenza di una norma che, formalmente, è inserita in un sistema, e di fatto, è disapplicata.

Inoltre, e ciò riveste la sua importanza ai fini della decisione in merito all’istanza de qua (e della prognosi di ragionevole certezza sulla eliminazione del pericolo per effetto della rimessione), il Riina non è più in grado di parlare con il Lorusso, stante il trasferimento di quest’ultimo.

Tuttavia gli “ordini di morte” all’indirizzo dei Pubblici Ministeri di Palermo che si occupano del processo sulla c.d. presunta “trattativa” tra Stato e mafia sono già usciti dal carcere ed hanno raggiunto i possibili destinatari di tali messaggi stragisti, come visto. Sicchè, anche per tali considerazioni, la rimessione ex art. 45 c.p.p. costituisce l’unico sicuro mezzo per eliminare il pericolo in atto e salvaguardare sia l’incolumità dei P.M. sia quella pubblica.

Dimostrato che, nel caso specifico, sussiste una “grave situazione” dotata dei requisiti previsti dall’art. 45 c.p.p., resta da verificare se essa sia idonea a pregiudicare “la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l’incolumità pubblica” o a determinare “motivi di legittimo sospetto”.

E’ evidente che il legislatore ha previsto tre distinte ipotesi di rimessione – come conseguenza delle “gravi situazioni locali” – sicchè essa è possibile sia qualora ricorrano, in concreto, più fattispecie previste dalla norma, sia in presenza anche di una sola di esse.

La formulazione dell’art. 45 c.p.p. è chiarissima in tal senso, e l’uso degli avverbi “ovvero” ed “o” non lascia spazio a dubbi di sorta. L’interpretazione letterale della norma dimostra che è sufficiente a determinare la rimessione anche la ricorrenza di una sola delle ipotesi previste dalla legge.

In tale sede – richiamate le considerazioni sui “turbamenti allo svolgimento del processo” ed anche su quelli riguardanti tutti i protagonisti dello stesso, che operano con lo spettro immanente e concreto ed, altresì, con il costante timore di nuove, efferate e sanguinose stragi – è doveroso spendere alcune brevi considerazioni su un pericolo ancor più grave, in questo momento: vale a dire quello attinente alla “sicurezza o incolumità pubblica”.

Al riguardo è sufficiente richiamare le dichiarazioni, supra riportate, del Procuratore Capo di Palermo, secondo il quale “le parole di Riina «potrebbero quasi rappresentare una specie di chiamata alle armi per il popolo di Cosa nostra», come se il vertice della mafia chiedesse «ai suoi di attivarsi per azioni violente, e questo è di estrema pericolosità».”

Ed ancora, quelle dell’ On. Lumia il quale ha affermato: “Attenzione – conclude l’esponente antimafia del Pd -, Riina non è un normale boss, detenuto in regime di 41 bis, vecchio e isolato. Penso proprio che non sia così. Cosa nostra nonostante i colpi subìti è viva e con in testa Riina e Matteo Messina Denaro c’è da aspettarsi di tutto, anche azioni violente verso i rappresentanti dello Stato”.”

Ed, inoltre, quelle del Procuratore Capo di Caltanissetta “Molto semplicemente, io e i colleghi di Palermo abbiamo espresso le nostre valutazioni sullo stato dell’organizzazione mafiosa e sulla possibilità che ci possa essere un colpo di coda di Cosa Nostra, col rischio concreto di una ripresa di quello stragismo che tra il 1992 e il 1993 ha insanguinato la Sicilia e l’Italia”. (Huffington post 5.12.13 – all. 26)

Il dottor Sergio Lari ha aggiunto, parlando delle frasi proferite da Riina, che “nel suo sfogo nel carcere di Opera lo dice chiaramente: tanto quello prima o poi in tribunale ci deve andare. Abbiamo a che fare con gente che per uccidere Falcone, la moglie e la scorta ha fatto saltare in aria 300 metri di autostrada.” (Huffington post 5.12.13 – all. 26)

Il predetto magistrato ha, infine, sottolineato che “Mah, il paradosso è stato proprio rendere pubbliche quelle frasi che Riina ha rivolto a un detenuto pugliese con cui stava passeggiando nel cortile del carcere, con una terminologia e una modalità che ci fanno chiaramente pensare che non sapesse di essere intercettato. Infatti, nei colloqui coi familiari è completamente un’altra persona e si guarda bene dal fare dichiarazioni confessorie come quelle registrate in quell’ora d’aria in cui si accredita la responsabilità delle stragi del ’92, dice come le ha fatte e si vanta di essere il numero uno in quanto a stragi commesse. Averle pubblicate ha reso noto anche al popolo di Cosa Nostra quello che pensa e farebbe Totò Riina”. (Huffington post 5.12.13 – all. 26)

Questo fa ragionevolmente escludere che il Riina “scherzasse” temendo di essere sottoposto ad intercettazione ma, soprattutto, conferma che il messaggio del boss corleonese è arrivato “al popolo di cosa nostra” che, pertanto, potrebbe in questo momento essere già in movimento per realizzarlo.

Non bisogna, altresì, dimenticare quanto affermato dal dottor Di Matteo: “Tutti parlano di minacce di Riina. Ma minacciare qualcuno significa volerlo spaventare. Riina, intercettato in carcere, non si limita a minacciarmi: il suo è un crescendo di parole rabbiose che culminano nell’ordine di uccidermi. Tant’è che i procuratori di Palermo e di Caltanissetta hanno utilizzato uno strumento eccezionale previsto dal Codice per “desegretare” le intercettazioni e ne han consegnato la trascrizione e il supporto audio-video al ministro dell’Interno Alfano. Parlare di “minacce” è improprio e fuorviante….. le minacce delle mafie sono sempre cose serie. Ma i magistrati di Palermo che indagano sulla trattativa Stato-mafia sono un caso a parte: qui lo stragista numero uno degli ultimi trent’anni ha dato l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista, sospesa vent’anni fa con la lunga Pax Mafiosa seguita alla trattativa.” (Il Fatto Quotidiano 18.12.13 – all. 31)

Ed, infine, le dichiarazioni estremamente allarmanti del Ministro dell’Interno, il quale ha sottolineato di non poter escludere la “tentazione di una ripresa della strategia stragista dopo tanti anni di silenzio”, ed ha ritenuto di convocare, nel giro di quindi giorni, ben due Comitati Nazionali per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica.

Alla luce di tali affermazioni, provenienti dai massimi esperti del “fenomeno mafioso” e dal più alto tutore dell’ordine pubblico in Italia, i quali – abbandonando il classico riserbo e la necessaria prudenza che contraddistingue il loro operato e la loro funzione – hanno parlato esplicitamente e senza mezzi termini di “stragi” e “strategie stragiste”, si ritiene che ogni altra considerazione sulla idoneità di tale “grave situazione” a pregiudicare “la sicurezza o (rectius, e n.d.r.) l’incolumità pubblica” sia assolutamente superflua.

Giova evidenziare, che secondo la Suprema Corte “L’istituto della rimessione di cui all’art. 45 c.p.p., comportando una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, giustificato dall’esigenza di salvaguardare gli altri fondamentali principi dell’indipendenza del giudice e della inviolabilità del diritto di difesa, ha carattere assolutamente eccezionale e può trovare applicazione solo quando si sia effettivamente determinata una situazione obiettiva tale da sconvolgere l’ordine processuale, inteso quale sottospecie dell’ordine pubblico e, più specificamente, quale complesso di mezzi strumentali approntati dallo Stato per l’attuazione delle proprie finalità nell’esercizio della giurisdizione e per garantire la serenità e l’attendibilità del risultato del giudizio.” (Cassazione penale, sez. I, 07/07/1994 – Campello; in senso conforme Cassazione penale, sez. I, 30/01/1996, n. 634 Tetamo ed, altresì, Cassazione penale, sez. I, 15/12/1995, n. 6638)

In altre parole il Giudice di legittimità ha, da sempre, ritenuto che la rimessione del processo possa sicuramente trovare applicazione in caso di sconvolgimento dell’ordine processuale. Sennonchè, nel caso de quo, si è in presenza di una situazione ben più grave (le minacce, rectius “l’ordine di eliminarci e di rilanciare così la strategia stragista”) che non investe solamente e semplicemente l’ordine processuale ma, addirittura, l’ordine pubblico, come può trarsi inequivocabilmente dalle dichiarazioni supra riportate.

La miglior conferma di tale assunto, oltre alle dichiarazioni testé richiamate, è data dal fatto che il Prefetto di Palermo ha subito riunito il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica e, dopo circa due settimane, è stato il Ministro dell’Interno a convocare d’urgenza, a Palermo, il Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica (ed a riconvocarlo “a stretto giro”).

E non risulta che, a tutela del “semplice” ordine processuale, siano mai stati tenuti tali autorevoli consessi.

Altro, definitivo e non smentibile riscontro all’attuale ed immanente pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica a Palermo è giunto dalle esplicite parole del dottor Di Matteo il quale, intervistato per la trasmissione Linea Gialla, dell’emittente La7, ha testualmente dichiarato “Sono qui al lavoro, cerco di non farmi condizionare da tutto quello che ormai da molti mesi accade intorno alla mia persona ed al mio lavoro. In realtà queste non sono minacce, Totò Riina è stato ascoltato, è stato intercettato mentre, inconsapevole di essere ascoltato, pronunciava prima delle parole rabbiose nei miei confronti ma poi dei veri e propri ordini di morte che cercava e cerca probabilmente di far pervenire all’esterno tanto che la gravità delle parole che sono state intercettate ha indotto i Procuratori di Palermo e di Caltanissetta a trasmettere immediatamente il testo e addirittura il sonoro delle registrazioni al Ministro dell’Interno perché evidentemente si ravvisava un pericolo anche per l’ordine pubblico. Quando si parla genericamente e sommariamente di minacce probabilmente non si aiuta l’opinione pubblica a capire di cosa si tratta” Tali dichiarazioni sono state diffuse anche dall’ANSA (Nota ANSA 17.12.13 – all. 60) e dalle principali testate, oltre che dalla suddetta trasmissione televisiva.

Ultima, in ordine di tempo, conferma alla attuale situazione ambientale è costituita da una circolare del Procuratore Capo di Palermo, diffusa il 10 febbraio u.s., con la quale è stato vietato l’accesso ad una determinata ala della Direzione Distrettuale Antimafia (nella quale ricadono le stanze del medesimo Procuratore Capo, degli aggiunti, del dottor Di Matteo e di qualche altro PM) agli “estranei”.

La circolare che, dalle notizie riportate sulla stampa, “entrerà in vigore giovedì (13 febbraio 2014 n.d.r.)”, consentirà e limiterà l’ingresso esclusivamente agli avvocati ed alle forze dell’ordine “che abbiano necessità di accedervi per motivi connessi alla loro funzione” (Giornale di Sicilia 11.02.14 – all. 61).

La misura, a leggere il testo della circolare, riportato entro virgolette dal cronista, è stata adottata allo scopo di “tutelare meglio la sicurezza dei magistrati e del personale, che prestano servizio nel corridoio del secondo piano” (Giornale di Sicilia 11.02.14 – all. 61) ed è effettivamente entrata in vigore (copia fotografica dell’ingresso all’area vietata – all. 62).

Nel corpo dell’articolo – dal titolo eloquente “Palermo, vietata l’area dei magistrati antimafia” e con sottotitolo inequivocabile “Esigenze di sicurezza, dopo le minacce, inducono Messineo ad un giro di vite: gli estranei dovranno chiedere l’autorizzazione” – l’autore ha evidenziato, altresì, come “la decisione non ha precedenti: in passato i tentativi di chiusura furono un paio e durarono pochi giorni.” (Giornale di Sicilia 11.02.14 – all. 61).

E’ evidente ed inconfutabile, quindi, la sussistenza – nella città di Palermo – di esigenze di ordine pubblico, ossia gravi ragioni di sicurezza ed incolumità pubblica, quali il pericolo concreto di azioni lesive e violente in danno di uno o più soggetti che partecipano al processo, da porre in essere con modalità tali da attentare all’intera collettività, ovvero ad un indefinito numero di persone.

Per le suesposte considerazioni si chiede che l’Ecc. Corte Suprema di Cassazione voglia, in accoglimento della presente istanza, disporre la rimessione del processo ad altro giudice designato a norma dell’art. 11 c.p.p.

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