Mori-Obinu, ecco la sentenza

“Benché non manchino aspetti che sono rimasti opachi, la compiuta disamina delle risultanze processuali non ha consentito di ritenere adeguatamente provato che le scelte operative” del Generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, “giuste o errate, siano state dettate dalla deliberata volontà degli imputati di salvaguardare la latitanza di Bernardo Provenzano o di ostacolarne la cattura”. E’ quanto scrive il tribunale di Palermo nella motivazione della sentenza con la quale il 17 luglio scorso ha mandato assolti Mori e Obinu. Nelle 1318 pagine di motivazione depositate oggi il presidente relatore, Mario Fontana, spiega il come ed il perché si è giunti a quella sentenza di assoluzione con la motivazione “perché il fatto no costituisce rato” che sembra al Tribunale quella che più si adatti alla concreta fattispecie”.

CIANCIMINO

Le dichiarazioni di Massimo Ciancimino sono scarsamente attendibili. E’ quanto sostiene il tribunale di Palermo nella motivazione del processo Mori-Obinu. Secondo il presidente relatore, Mario Fontana, la le dichiarazioni di Ciancimino possono spiegarsi “con la irresistibile spinta di una narcisistica propensione ad affermazioni eclatanti che gli facessero guadagnare la ribalta mediatica; con il velleitario tentativo di conquistare con gli inquirenti una posizione di forza che preservasse il patrimonio (illecitamente accumulato dal padre), messo in pericolo dalle iniziative giudiziarie”. I giudici del tribunale di Palermo sostengono di essersi trovati anche “nella impossibilità di ritenere sufficientemente provato sulla scorta delle affermazioni di Ciancimino e degli altri elementi acquisiti che a cavallo fra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio ci fossero stati contatti fra carabinieri e mafiosi. Scrivono i giudici di non avere acquisito prove “che l’inizio dei rapporti diretti del padre, Vito Ciancimino, con Mori risalga ad epoca anteriore al 5 agosto 1992; che lo stesso Mori e l’allora capitano De Donno siano stati resi edotti da Vito Ciancimino non tanto dell’interesse del boss Bernardo Provenzano ad una strategia che abbandonasse lo scontro frontale e cruento nei confronti dei rappresentanti dello Stato e della possibilità, sul punto, di una frattura fra lo stesso Provenzano e Salvatore Riina, ma del fatto che il Provenzano fosse interlocutore corrente di Ciancimino”.
Il tribunale scrive anche che non c’è prova “che Provenzano abbia effettivamente collaborato alla cattura di Riina”.
TRATTATIVA
Secondo i giudici di Palermo, inoltre, non c’è la prova “che sia stato stipulato un accordo che prevedeva l’abbandono della strategia stragista in cambio di una sorta di immunità del Provenzano”.
“Gli atteggiamenti del dottor Paolo Borsellino, riferiti dal pentito Mutolo, sono rimasti senza riscontro, così come senza riscontro è rimasta la eventualità che lo stesso dottor Borsellino abbia in qualche modo manifestato la sua opposizione ad una “trattativa” in corso fra esponenti delle Istituzioni statali e associati a Cosa Nostra”. Lo scrivono in sentenza i giudici del Tribunale di Palermo che hanno giudicato il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. “Da ultimo – prosegue la motivazione della sentenza depositata oggi – si deve rilevare che alcuni dati sembrano indicare che la strage di via D’Amelio fosse già programmata da tempo e non sia stata frutto di una decisione estemporanea, dettata da contingenze del momento”.
SUBRANNI
Dalle stesse parole della sig.ra PIRAINO si desume che ella non aveva mai parlato prima (almeno in sedi ufficiali) dell’episodio. Si riconosce che la circostanza possa destare qualche perplessità, data la indubbia ed intuitiva gravita del fatto (appreso dal dr. BORSELLINO, eroico protagonista della lotta alla criminalità organizzata, consapevole di contiguità fra settori dello Stato e la mafia, pochi giorni prima di cadere vittima di un vile attentato) e la sua, altrettanto indubbia ed intuitiva, potenziale importanza per le investigazioni sulla strage di via D’Amelio. Si riconosce, altresì, che qualche perplessità possa suscitare anche la inadeguatezza, rispetto alla tragica portata degli eventi, della motivazione (non offuscare la immagine dell’Arma) addotta per giustificare il silenzio serbato per tanti anni. Può, infine, ammettersi che i successivi comportamenti della sig.ra PIRAINO nei confronti dell’Arma dei Carabinieri non sono stati connotati da una, sia pure cauta, presa di distanza e sembrano suggerire, quanto meno, che la predetta abbia continuato a mantenere inalterata la massima fiducia che riponeva nella Istituzione.
Ed invero, da alcune testimonianze si desume che la sig.ra PIRAINO, malgrado la riferita, sconvolgente rivelazione del marito, non si è astenuta dal frequentare i vertici dell’Arma ed ha esortato il magistrato che investigava sulla strage di via D’Amelio ad avvalersi dei CC. nello svolgimento delle sue indagini.
Ed invero, da alcune testimonianze si desume che la sig.ra PIRAINO, malgrado la riferita, sconvolgente rivelazione del marito, non si è astenuta dal frequentare i vertici dell’Arma ed ha esortato il magistrato che investigava sulla strage di via D’Amelio ad avvalersi dei CC. nello svolgimento delle sue indagini.

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