Il Massimo della discordia

di Giulio Ambrosetti e Ipazia Rosenthal * Rivelazione: Massimo Ciancimino non è un pentito. Il 18 aprile scorso, in quel di Perugia, appena tre giorni prima del fermo avvenuto lo scorso 20 aprile, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, offrendosi alle domande dei giornalisti, nella Sala dei Notari dove era ospite per la presentazione del suo libro “Don Vito”, dichiarava: “Non sono un pentito”. Sulle rivelazioni ‘a rate’, Ciancimino junior aveva detto di fare in questo modo “perché ogni mia parola deve essere supportata da documentazione che io trovo tra le carte di mio padre, che era un grafomane”.
Massimo Ciancimino precisava quindi di non essere “né un collaboratore, né un pentito. Un giudice mi ha chiamato a rispondere a delle domande – aggiungeva – e l’ho fatto. Non ho benefici e non posso averne, ma è opportuno andare avanti”. Martedì 19 aprile sarebbe stato il suo 129° interrogatorio con i soliti pm in Procura, a Palermo. Mentre, all’insaputa di questi ultimi, nel giardino di casa, a Palermo, custodiva 13 candelotti di dinamite che avrebbero potuto fare saltare in aria l’intero stabile di via Torrearsa.
Quello che è avvenuto dopo quel 19 aprile scorso lo abbiamo letto sui quotidiani. Avevamo già intuito che ci sarebbero state eclatanti rivelazioni, ma non immaginavamo così tante e così rilevanti. Proviamo a capire cosa sta succedendo.

 

…e Massimo finì in isolamento

Com’è noto, il 2 maggio scorso Massimo Ciancimino, su decisione del Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, è stato trasferito dal carcere di Parma, dove era stato condotto dopo il fermo avvenuto il 20 aprile, al carcere ‘Pagliarelli’ di Palermo. Rinchiuso in una cella di isolamento in uno dei due penitenziari del capoluogo dell’Isola (il secondo carcere di Palermo è il più noto ‘Ucciardone’ dove un tempo si servivano anche caffè ‘corretti’ con il veleno: come quello che spedì all’altro mondo Gaspare Pisciotta, cugino del bandito Salvatore Giuliano: ma questo ricordo, si spera, non dovrebbe aveva a che fare con la storia che stiamo raccontando), il supertestimone, cioè il già citato Massimo Ciancimino, ha avuto modo di riflettere e pensare.
Come risaputo, Ciancimino junior è stato arrestato per calunnia aggravata nei confronti dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro, ed è anche indagato per detenzione di esplosivi, a seguito alla rivelazione resa, nel primo interrogatorio avvenuto il 26 aprile presso il carcere di Parma, ai pubblici ministeri, palermitani Antonio Ingroia, Antonino Di Matteo e Paolo Guido.
L’accusa di detenzione di esplosivi mossagli dalla Procura di Palermo è collegata ai risultati della perizia consegnata ai magistrati dagli artificieri della Polizia, che hanno confermato la pericolosità dei 13 candelotti di dinamite e dei 21 detonatori trovati nel giardino dell’abitazione palermitana del figlio dell’ex sindaco. L’esplosivo, come già accennato, avrebbe potuto far saltare in aria l’intero stabile nel centro della città (l’abitazione di Ciancimino junior dista un centinaio di metri dal teatro ‘Politeama’). Questa è la conclusione a cui sono arrivati gli artificieri della Polizia dopo avere analizzato i candelotti.
La dinamite, di produzione svizzera, riportava la data 14 agosto 1998, entro la quale, per farla esplodere, era necessario un innesco. Una sorta di ‘termine di garanzia’, lo definiscono gli esperti, scaduto il quale l’esplosivo avrebbe potuto auto innescarsi. Il potenziale, per altro, era rimasto intatto, nonostante Ciancimino junior avesse provveduto a bagnare i candelotti. Anzi, concludono gli esperti, l’acqua avrebbe cristallizzato il tritolo rendendolo ancora più pericoloso. Ricorderemo come fosse stato lo stesso Ciancimino, dopo essere stato fermato a Parma, a indicare il luogo dove aveva nascosto l’esplosivo. Candelotti che, in una prima versione, ha sostenuto di avere ricevuto a scopo intimidatorio, evitando di denunciare l’accaduto per non allarmare ulteriormente i suoi familiari.
Per la questione della dinamite rinvenuta nella sua abitazione, Ciancimino non ha reso alcuna dichiarazione nel processo che in questi giorni si celebra a Palermo a carico del generale dei Carabinieri, Mario Mori. Ma ai pubblici ministeri che lo avevano sentito in carcere, nei ‘saloni’ del ‘Pagliarelli’ aveva continuano a ribadire che, qualche giorno prima dell’arresto, un altro uomo gli ha recapitato un sacco con l’esplosivo. “Dal videocitofono ho intravisto un tizio con i capelli rasati”. Lo sconosciuto, a questo punto, avrebbe dichiarato: “C’è un pacco per lei, la prossima volta non avrà il tempo di aprirlo”. Vero? Falso? Chissà.
A questo punto, anziché rivolgersi a chi lo protegge, ovvero agli ‘angeli custodi’ che lo Stato paga per garantirgli incolumità, Ciancimino che fa? Immaginiamo che prende il pacco, lo apre e osserva il contenuto, cioè l’esplosivo: 13 candelotti, 21 detonatori, 2 micce. Con sangue freddo lo maneggia, lo manipola bagnandolo con l’acqua (chissà chi gli ha detto che in questo modo lo rendeva innocuo), lo sotterra in giardino, continua regolarmente la sua vita, va in giro a presentare il suo libro e va pure in vacanza per Pasqua con la famiglia, lasciando una bomba degna di una strage nel giardino del palazzo dove abita. Possibile? Quanto meno questa storia ha dell’incredibile. Tranne che non venga fuori qualche altra verità, quanto meno presunta, se non assoluta.

Sabato 7 maggio: la svolta

Nel carcere di Pagliarelli, dove va in scena l’ennesimo interrogatorio, Ciancimino junior ha prodotto ai magistrati palermitani alcune eclatanti dichiarazioni che danno luogo a nuovi effetti investigativi, almeno al momento mediatici. Il ‘succo’ delle ulteriori dichiarazioni può essere ricompreso in alcuni punti essenziali: esisterebbe un ‘puparo’, ex pubblico ufficiale dei carabinieri, grande suggeritore e fornitore di documenti, a quanto sembra anche ‘taroccati’; esisterebbero dei testimoni qualificati che possono comprovare l’esistenza del ‘puparo’; esiste, quindi, un ‘pupo’, che è lo stesso Massimo; esistono diversi documenti in copia e autografi – tra cui alcuni obiettivamente eclatanti – come la lettera ad Antonio Fazio (ex governatore della Banca d’Italia) presumibilmente del 1993 – appartenuti a Vito Ciancimino e forniti dal ‘puparo’ al ‘pupo’ per rimetterli ai magistrati palermitani; esiste il famigerato archivio segreto di don Vito, sistemato nello sgabuzzino, naturalmente a casa di Massimo Ciancimino: archivio che mai era stato rinvenuto, anche nelle precedenti perquisizioni – andate in scena dal 2005 in poi – effettuate dal precedente pool di magistrati che investigava sul ‘tesoro’ Ciancimino e sulla Gas spa, la società che, per oltre venti anni, ha gestito ‘allegramente’ i lavori per la metanizzazione in Sicilia e in altre regioni italiane; a dire il vero, neanche Ciancimino junior aveva mai sentito, prima delle notti trascorse in carcere, l’esigenza di rivelare ai magistrati del nuovo pool investigativo le ulteriori ‘novità’; esisterebbe un soggetto che ha consegnato e fornito dinamite, detonatori e micce al ‘pupo’; nessuna rivelazione è trapelata sul ‘tesoro’ di don Vito investito dal Ciancimino junior a Bucarest, nell’Est europeo, a mezzo fittizi intestatari in una serie di società ad hoc costituite.

Come si può notare, il menù offerto da Ciancimino junior agli inquirenti è nutrito e molto interessante.

Le versioni del ‘pupo’.
Andiamo per gradi e valutiamo. Com’è noto, con riguardo al reato di calunnia aggravata nei riguardi di Gianni De Gennaro (che sarebbe stato commesso attraverso il presunto ‘taroccamento’ del documento che riconduceva con una freccia lo stesso De Gennaro al soggetto identificato con i nomi in codice di Gross/Carlo/Franco, ovvero il soggetto dei ‘servizi’ segreti più o meno deviati (cioè italiani,visto che in Italia i servizi segreti non riescono a fare a meno di ‘deviare’) che sarebbe coinvolto nella trattativa Stato-mafia); reato per il quale i pm palermitani hanno chiesto il fermo e la detenzione in carcere per Ciancimino junior.
Quest’ultimo, nei precedenti interrogatori, avvenuti in carcere a Parma, aveva dato almeno cinque diverse versioni. Infatti, Massimo Ciancimino avrebbe fornito ai magistrati di Palermo diverse e inconciliabili modalità con cui aveva avuto i documenti sull’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro, tra cui quello contraffatto che gli è costato l’accusa e il carcere. Quattro le ha raccontate, una dopo l’altra, nel solo interrogatorio di convalida del fermo tenutosi venerdì Santo 24 aprile; dichiarazioni raccolte dai pm in un verbale di più di 100 pagine, nel carcere di Parma, quando ha anche rivelato di avere ricevuto il pacco con dei candelotti di esplosivo, poi ritrovati dalle forze dell’ordine, in base alle sue indicazione, nel suo giardino di casa.
Quando la scorsa estate Ciancimino ha depositato quella lista di nomi, dichiarava di avere visto suo padre aggiungere personalmente il nome di De Gennaro alla lista, collegandolo con un freccia al nominativo Gross. Poi, però, la Polizia scientifica ha scoperto che quella dicitura è stata apposta al documento in tempi successivi alla sua stesura. Dopo il fermo, ai pm che gli chiedono chi sia stato a fornirgli quella carta, prima risponde “alcuni amici”, dice che è arrivato in una busta anonima a suo padre nel 2002. Poi cambia versione: dice di averlo ricevuto lui “con una busta anonima che ho distrutto”. Sembra avere finito, ma cambia ancora il racconto: il documento lo avrebbe ritrovato rovistando tra delle fotografie, mentre ricercava la documentazione necessaria alla realizzazione del libro don Vito.

Le accuse a Gianni De Gennaro

Intanto, sempre dal carcere di ‘Pagliarelli’, Massimo Ciancimino ha insistito sulla vicenda De Gennaro, affermando che quest’ultimo “sapeva dei rapporti tra don Vito e Bernardo Provenzano, il boss di Corleone”. Le accuse a De Gennaro sono contenute negli interrogatori in carcere resi ai pm palermitani Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e Paolo Guido dopo il suo arresto. I verbali sono stati messi a disposizione della difesa di Mori.
Passano i giorni. Il figlio di don Vito viene trasferito a Palermo, al carcere di ‘Pagliarelli’, dove dopo alcuni giorni i pm lo interrogano di nuovo per oltre 4 ore. Stavolta racconta che a consegnargli i documenti sarebbe stato un uomo misterioso. Avvalorando la cosiddetta tesi di un ‘puparo’, indicato ma non ancora identificato, che avrebbe manovrato le sue dichiarazioni, suggerendogli, di volta in volta, cosa rivelare ai magistrati; tesi avanzata già nei giorni successivi al suo arresto e che anche il procuratore aggiunto del Tribunale di Palermo, Antonio Ingroia aveva detto essere probabile. La Dia sta cercandoli ‘puparo’. E trovarlo potrebbe chiarire definitivamente molte circostanze.
Massimo Ciancimino ha quindi dichiarato la sua verità delle verità ai magistrati: esiste il ‘puparo’, conosce l’identità del signor Franco/Carlo e, forse, anche di Gross; ha fornito documenti e forse ne ha altri da fornire; ma, soprattutto, ci sono testimoni autorevoli (gli uomini della scorta di Massimo) che l’hanno visto e incontrato con lui. “Siamo a cavallo!”, avranno pensando i pm di Palermo. Forse è il caso di continuare a tollerare il superteste con tutte le sue bizzarrie.
Quindi Massimo ha loro dichiarato di avere ricevuto alcune lettere su De Gennaro da questo misterioso personaggio che l’anno scorso gli avrebbe consegnato alcune missive del padre Vito. Lettere in cui si faceva riferimento all’ex capo della Polizia, il già citato Gianni De Gennaro. Il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido hanno già incaricato la Dia di identificare con precisione l’uomo indicato da Massimo Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco di Palermo ha rivelato di avere incontrato più volte, negli ultimi mesi, il misterioso personaggio, che all’inizio si sarebbe presentato come un vecchio amico del padre.
“Mi precisò che voleva che io consegnassi questi documenti ai magistrati – ha messo a verbale Ciancimino – ma mi disse che non voleva essere coinvolto”. La Procura di Palermo vuole adesso scoprire se dietro quel suggeritore ci siano altre persone. Di sicuro, il supertestimone oggi accusato di calunnia nei confronti di De Gennaro non ha mai fatto cenno nei suoi interrogatori di questi ultimi mesi a una persona che gli avrebbe consegnato dei documenti. Il nome del suggeritore (o presunto tale) è l’ennesimo colpo di teatro in una vicenda già intricata e densa di personaggi degni di un romanzo giallo. Quando si dice che la realtà supera di gran lunga la fantasia!.
Il nome – in teoria – resta coperto dal segreto istruttorio. In pratica, i più autorevoli quotidiani nazionali e siciliani ne hanno pubblicato i connotati. Il procuratore aggiunto Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido hanno già incaricato la Dia (Direzione investigativa antimafia) di trovare i riscontri necessari. Le prime conferme investigative sarebbero già arrivate. Quella persona indicata da Ciancimino esiste per davvero: si tratterebbe di un ex sottufficiale dell’Arma dei carabinieri, già autista del generale dei carabinieri Giacinto Paolantonio, un personaggio conosciuto da don Vito nel periodo in cui lo stesso era comandante dei vigili urbani di Palermo. Ma, soprattutto, l’ufficiale che, insieme al maresciallo Giovanni Lo Bianco, è stato uno dei protagonisti della morte – sarebbe più corretto dire dell’eliminazione, da parte della mafia, per conto dello Stato – del bandito Salvatore Giuliano.
Il riferimento a Paolantonio non va sottovalutato. Anzi, va letto come un ‘segno’ che Vito Ciancimino ha lasciato alla posterità. Quasi a dire che lui arriva da lontano, dagli anni del secondo dopoguerra del secolo scorso. Ha cominciato da interprete del colonnello Charles Poletti, l’ufficiale americano massone che comandava in Sicilia subito dopo lo sbarco del 1943. ha cominciato con Poletti e poi ha continuato con gli uomini dell’onorata società in salsa americana che consegnarono il cadavere del bandito Giuliano allo “Stato brigante” del nostro Paese (la definizione è del parlamentare nazionale socialista Simone Gatto, per anni componente della prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia).

Il “distinto signore”

Paolantonio, dicevamo. Ora la domanda che non è peregrina è la seguente: come faceva questo anziano ex carabiniere ad avere delle lettere di Vito Ciancimino? Quando gli erano state consegnate? E da chi? E perché in tutto questo tempo non aveva sentito l’esigenza di presentarsi all’autorità giudiziaria, ovvero di trovare un altro modo per conferire direttamente con chi indaga? Ciancimino junior sostiene che quel “distinto signore” gli abbia riferito anche del mitico “signor Franco/Carlo”: l’uomo dei ‘servizi’, o presunti tali, coinvolto nella trattativa fra mafia e Stato, un personaggio ancora rimasto – ahinoi! – senza nome. Massimo Ciancimino ha aggiunto a verbale: “Mi disse che lo conosceva (riferendosi al signor Franco/Carlo), gli chiesi di poterlo incontrare. E alla fine, il misterioso personaggio avrebbe anche predetto un attentato”.
I verbali degli interrogatori di Massimo Ciancimino, anche se coperti da diversi omissis, si trovano da poco depositati agli atti del processo al generale Mori e al capitano dei carabinieri, Giuseppe De Donno. Il 10 maggio scorso è stato interrogato il teste Massimo Ciancimino. In questi verbali lo stesso figlio di don Vito racconta di avere incontrato il misterioso personaggio, amico del padre, almeno quattro volte: “La prima volta l’ho incontrato alla presentazione di un libro, a Palermo, a Palazzo Steri, fra aprile e giugno dell’anno scorso – così inizia il verbale dell’interrogatorio, depositato al processo Mori -. In quella occasione mi consegnò la documentazione riguardante il dottor De Gennaro”.
A palazzo Steri, sede degli uffici dell’Università di Palermo, Ciancimino presenta il suo libro. Questo avviene il 21 aprile 2010. “Mi disse che doveva parlarmi – così ha spiegato Ciancimino -. Aggiunse che il mio libro era incompleto, perché mancavano i motivi dell’eliminazione politica di mio padre. Mi disse pure di essere una persona che mi conosce sin dall’infanzia, in quanto amico di mio padre, nel periodo in cui mio padre frequentava il generale Paolantonio. Mi disse che era in possesso di documentazione che riguardava sia De Gennaro che Falcone. Documenti consegnati da mio padre, il quale si riteneva vittima di entrambi”.
Ovviamente i magistrati hanno chiesto a Massimo Ciancimino del perché non avesse mai parlato di quell’uomo. “Non ho mai riferito questi particolari – ha risposto Massimo – perché, riguardando terze persone, non era mia intenzione coinvolgerle. Dopo l’incontro di palazzo Steri – ha aggiunto – ricevetti della documentazione per posta. Poi lui mi consegnò altri manoscritti e dattiloscritti. E mi chiese se avessi portato la documentazione già ricevuta ai magistrati. Io risposi di no. Mi precisò che voleva che io consegnassi questi documenti ai magistrati, ma mi disse che non voleva essere coinvolto”.

I De Gennaro diventano due

Ora, fra quei documenti c’era anche l’appunto (in originale) in cui Vito Ciancimino aveva annotato il nome del “magistrato De Gennaro”, dopo aver visto un servizio del Tg2. È il biglietto che Massimo Ciancimino ha consegnato in Procura il 7 febbraio scorso, e che poi la Polizia scientifica ha scoperto essere la ‘matrice’ della scritta “De Gennaro”, inserita nell’ormai famosa lista (contraffatta) del “quarto livello”, con i personaggi delle istituzioni chiamati in causa per la trattativa mafia-Stato.
Ma allora chi è questo De Gennaro: il magistrato De Gennaro o l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro, che si ritiene calunniato? E qui si arriva all’incredibile: “Nel corso del terzo incontro la persona tornò a chiedere se avessi consegnato tutti i documenti riguardanti De Gennaro ai magistrati. Alla mia conferma, mi assicurò che avrei ricevuto una lettera scritta dal dottor De Gennaro e indirizzata a mio padre. Mi disse dunque di stare tranquillo circa le accuse di calunnia che mi venivano mosse”.
Quello stesso giorno sembra che il misterioso personaggio abbia rivolto a Ciancimino un avvertimento: “Mi invitò a non testimoniare ulteriormente contro il generale Mori – è sempre il figlio dell’ex sindaco a parlare – in quanto questi, come mio padre, era in qualche modo vittima della trattativa, i cui protagonisti erano Mancino (Nicola Mancino, ex ministro degli Interni) e De Gennaro”.
Il quarto ed ultimo incontro sarebbe avvenuto nel marzo scorso. Massimo non indica dove, ma indica dei precisi, qualificati e qualificanti testimoni degli incontri tra Ciancimino e il ‘puparo’: “La scorta era sempre con me”, dice. L’anziano signore invitò Massimo a lasciare Palermo: “Mi disse – aggiunge – di essere a conoscenza di strani movimenti sul mio conto e che c’erano serie possibilità che potessero farmi un attentato”.
Salvifico, al dunque, per la vita di Ciancimino junior, sarebbe stato il fermo del 21 aprile ultimo scorso. Quanto sopra è stato ribadito puntualmente dal superteste il 10 maggio scorso dinanzi al giudice della 4° sezione del Tribunale di Palermo nel processo Mori. E quindi è entrato nella storia giudiziaria italiana.

Don Vito, Fazio e il giudice Borsellino

Tra i documenti consegnati a Massimo da questa persona, che in attesa di identificazione continueremo a chiamare il ‘puparo’, stando sempre dell’ultimo dei figli di Ciancimino senior, ci sarebbero anche le lettere indirizzate all’ex Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, in cui si faceva riferimento al “galantuomo” De Gennaro. Ne è stata prodotta una versione inedita con la firma autografa (verificata per altro dalla scientifica) di Vito Ciancimino. In tale missiva, scritta dallo stesso Vito Ciancimino forse nell’anno 1993, indirizzata al Governatore della Banca d’Italia dell’epoca, Antonio Fazio, l’ex sindaco di Palermo parla di un fantomatico “regime” che avrebbe ideato un “piano eversivo” perpetrato con le stragi del ’92-’93. E scrive che la mediazione in corso con l’allora colonnello Mori si interruppe dopo che Borsellino, oppositore della trattativa, venne ucciso.
Vito Ciancimino scrive: “Promemoria da ben conservare. Sono Vito Ciancimino, il noto. Sono fermamente convinto che su ordine di questa gente si sia armata la mano della mafia per gli omicidi dell’onorevole Salvo Lima, del giudice Giovanni Falcone e del giudice Paolo Borsellino”.
Nel ‘93-‘94 l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, scrisse una lettera “promemoria” al neo governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, in cui, ha raccontato il figlio Massimo ai pm, “sempre vedeva l’unica persona garante, una persona che a 360 gradi avrebbe potuto garantire un equilibrio di quello che lui chiamava il sistema, una persona super partes”. Il testo della lettera, in versione dattiloscritta e in copia stampata, è firmata a mano. Questa lettera è stata consegnato ai pm Di Matteo ed Ingroia da Massimo Ciancimino nel luglio scorso, poi depositata al processo al generale Mori per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e sulla trattativa tra Stato e mafia.

“Sono Vito Ciancimino, il noto”

“Sono Vito Ciancimino, il noto”, inizia proprio così la lettera in cui il vecchio Ciancimino si racconta “all’illustrissimo presidente”. La sua missiva vuole essere un avvertimento a Fazio (più avanti vedremo perché chiama “presidente l’alllora Governatore della Banca d’Italia) nel caso in cui quest’ultimo decidesse di “scendere in politica”. Ma da chi l’ha avuta don Vito questa informazione? “Amici di regime”, dice lui; la notizia gli è stata “sussurrata”.
È una lettera piena di misteri, quella dell’ex sindaco al neo presidente-Governatore della Banca d’Italia. Di misteri e informazioni da prendere con le pinze. Chi dovrebbe garantire? E per chi? E, soprattutto, cos’è questo “regime” di cui Ciancimino parla senza sosta (il termine viene ripetuto 8 volte) per tutta la lettera? Si tratta forse del famigerato “quarto livello” che, secondo suo figlio Massimo, don Vito avrebbe voluto rivelare al giudice Giancarlo Caselli prima di morire?
Vito Ciancimino afferma, infatti, di essere stato condannato “su indicazione del regime per il reato di mafia per mano di persone che, a confronto, alcuni mafiosi sono galantuomini”. Il “noto” racconta poi di come “già nel 1984 questa gente avrebbe armato la mano giudiziaria del giudice Falcone”, con lo scopo di eliminarlo dalla vita politica. Il 1984 è effettivamente l’anno dell’arresto di don Vito a seguito delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, secondo il quale Ciancimino era “organico” alla famiglia dei Corleonesi: “Ciancimino è nelle mani di Riina e Provenzano”, disse Buscetta a Giovanni Falcone. Fu nello stesso periodo che l’ex sindaco venne espulso dal suo partito, la Dc. “Si era decisa una vera e propria epurazione politica ai danni della Democrazia cristiana”, ma il “complotto” subì una battuta d’arresto con la morte improvvisa di Rosario Nicoletti, suicidatosi in circostanze misteriose il 17 novembre 1984.
“In quel preciso momento i notabili della Dc decisero di fare quadrato intorno alla morte del loro segretario regionale”. E a quanto pare sarebbero stati questi ultimi, tramite il conte Romolo Vaselli (già citato nei promemoria cianciminiani degli incontri con l’allora colonnello Mori), ad avere inviato a Ciancimino “il Dott. De Gennaro, noto galantuomo”. Ed è in questo termine, a prima vista del tutto elogiativo, che troviamo il secondo mistero della lettera. A cosa allude Ciancimino quando afferma che la Dc gli avrebbe inviato De Gennaro per “prepararlo al triste evento” e per “controllare le eventuali reazioni ed i danni” che il suo arresto “avrebbe potuto arrecare al loro nuovo disegno”? Quale sarebbe questo “disegno” (“il loro capolavoro, il capolavoro finale”, lo chiama Ciancimino) in preparazione per quell’anno 1993?
Gli interrogativi sono tanti, i dubbi legittimi. A cominciare proprio dall’anno in questione. Secondo quanto detto dal figlio Massimo ai pm di Palermo, Vito Ciancimino avrebbe scritto la lettera tra il novembre del 1992 primi del 1993. Ma tale data pone un problema di coerenza con la dicitura (“Illustrissimo Pres. Dott. Fazio”) posta in esergo alla missiva: Fazio è diventato Governatore della Banca d’Italia, nonché presidente dell’Ufficio Italiano Cambi (un ente della stessa Banca), solo nel maggio 1993. E’ più probabile, quindi, che la data di stesura risalga al 1993 o al 1994, e cioè quando Vito Ciancimino era già stato condannato in via definitiva. Don Vito, a quel punto, è senza freni, parla anche delle stragi e della trattativa tra Stato e mafia: “Sono fermamente convinto che su ordine di questa gente si sia armata la mano della mafia per gli omicidi dell’onorevole Salvo Lima, del giudice Falcone e del giudice Borsellino”. E ancora: “Dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzato con il mio contributo dal colonnello dei Ros, Mori, per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia, ennesimo strumento nelle mani del regime, e di fatto interrotto con l’omicidio del giudice Borsellino, sicuramente in disaccordo con il piano folle”.

“Il Grande Architetto”

L’ondata di sangue che ha coinvolto il ‘92-’93, dall’omicidio Lima fino alla strage di via dei Georgofili, a Firenze, rappresenterebbe “solo una parte di questo lucido piano eversivo”. La bozza dattiloscritta agli atti si chiude qui. Mentre nell’altro documento, consegnato da Massimo Ciancimino agli inquirenti, la versione stampata firmata dal padre continua ancora per una manciata di righe: “Questo stesso regime che pubblicamente ho denunziato come il “Grande Architetto” è fatto di uomini delle Istituzioni i cui nomi e cognomi io conosco bene”. Nomi e cognomi che don Vito avrebbe elencato nello stesso documento che, secondo la Procura di Palermo, il figlio Massimo avrebbe poi deliberatamente contraffatto, inserendo il nome dell’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro (accuse per le quali, come ricordato, Ciancimino junior si trova ora in custodia cautelare carcere).
La lettera si chiude con un interrogativo che lascia spazio alle supposizioni che vedrebbero Ciancimino organico alla Gladio, l’organizzazione “Stay Behind” con sede in Italia utilizzata in funzione anticomunista: “Ritengo che dopo la caduta del muro di Berlino sia venuto a mancare il vero motivo ed anche i presupposti per i quali io stesso ho aderito a tutto questo”, conclude l’ex sindaco di Palermo.

L’archivio di papà don Vito

Ma la rivelazione più importante in assoluto di Massimo Ciancimino è quella relativa all’esistenza e ubicazione dell’archivio segreto del padre don Vito. Era in uno sgabuzzino, con tanto di ben visibile porta di accesso marrone sulla scala dello stabile, tra il piano terra e il primo piano di via Torrearsa, naturalmente a Palermo. Bastava affrontare 5 gradini, il tutto a casa di Massimo. A poco o nulla vale che nelle piantine catastali lo sgabuzzino non è indicato. Chi perquisisce non si ferma certo alla verifica delle piantine catastali!
Oltre la porta d’ingresso della sua casa palermitana Massimo aveva quindi il suo vero ‘tesoro’, il salvacondotto per la vita. Il luogo deputato alla custodia dell’archivio del padre don Vito. A rivelarlo ai pm è stato lo stesso figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo. Le cose stanno così o l’archivio è arrivato ‘dopo’? Vattelappesca.
Massimo si è convinto a far ritrovare cinque scatoloni pieni di carte. Ora la Dia ne valuterà il contenuto e la scientifica ne accerterà l’autenticità. Lo sgabuzzino di via Torrearsa è il luogo da cui Massimo Ciancimino ha tratto tutti i documenti che per anni ha detto di essersi spedito da fantomatiche cassette di sicurezza in giro per l’Europa; documenti che avrebbe invece conservato in quello sgabuzzino nel palazzo di casa sua. Non quindi in qualche minuta cassetta di sicurezza del Liechtenstein, come aveva dichiarato fino ad ora, mentendo agli stessi pm (smentito dalla stessa Landesbank, l’istituto di credito da cui Massimo inizialmente aveva detto di aver estratto del materiale). E nemmeno in un improbabile nascondiglio francese come ci si poteva aspettare e come Ciancimino junior aveva voluto fare credere in tutti questi ultimi anni.
Il ‘tesoro’ documentale dell’ex sindaco era più vicino di quanto si pensasse. Quello che è dato al momento sapere circa il contenuto dell’archivio è che si tratta di una corposa raccolta di appunti manoscritti di Vito Ciancimino e di dattiloscritti. Indubbiamente questo ritrovamento potrà offrire altri spunti d’indagine a 360 gradi.

L’ombra lunga della Gas spa

Lo sgabuzzino di casa Ciancimino: il luogo – insieme alla sua cassaforte nella casa di villeggiatura – che nessun investigatore, nessun magistrato aveva fino ad ora visitato (sono forse finiti i tempi di ‘mani pulite’: tempi in cui gli investigatori sventravano finanche i cuscini di casa e trovavano i soldi pure negli innocui pouf in camera da letto?). Ovvero quel luogo nel luogo dove, sin dal febbraio 2005, lo stesso Ciancimino junior aveva subito, nel procedimento penale denominato “Tesoro di Ciancimino”, perquisizioni e sequestri documentali ad opera degli ufficiali delegati dal pool investigativo palermitano costituito dai magistrati palermitani Giuseppe Pignatone, Sergio Lari, Antonio Prestipino, Lia Sava, Roberta/Buzzolani, tutti magistrati in atto indagati. Su di loro si dovrà pronunciare il Giudice per le indagini preliminari di Catania, Giuliana Sammartino, il prossimo 30 maggio 2011.
La richiesta riguarda i reati di omissioni di atti d’ufficio in relazione alle indagini sul ‘Tesoro’ di Ciancimino e per la sperequazione investigativa tra il gruppo che faceva capo a Gianni Lapis (ritenuto dai magistrati l’unico fittizio intestatario della quota di Vito Ciancimino nella Gas spa, la più grande società di metanizzazione e di erogazione di servizi di fornitura del gas che ha operato in Sicilia dagli anni ‘80 del secolo scorso fino ai primi anni 2000) e il gruppo che faceva capo a Brancato (alias Ezio Brancato, sua moglie Maria D’Anna e le figlie Monia e Antonella, ovviamente Brancato). Un gruppo, quello di Ezio Brancato e famiglia, che lo stesso Ciancimino junior ha più volte confessato – in plurimi verbali di interrogatorio dinanzi ai pm di Palermo, di Catania e di Caltanissetta e in sede di testimonianza nel processo Mori – di essere prestanome e fittizio intestatario di suo padre don Vito. Misteri su misteri.
Anche perché il pm di Catania, Antonio Fanara, nonostante lo evidenzi in sede di richiesta di archiviazione, sembra comunque avere raggiunto un certo grado di consapevolezza che qualcosa in quelle indagini non ha funzionato come avrebbe dovuto (con riferimento alle indagini svolte dai pm Giuseppe Pignatone, Sergio Lari, Antonio Prestipino, Lia Sava, Roberta Buzzolani). Infatti lo stesso magistrato della Procura catanese puntualizza a pag 24-25 della richiesta di archiviazione che è stata notificata a 21 indagati tra cui molti giornalisti: “Si deve iniziare a evidenziare ciò che appare provato: è certamente vero che le indagini del procedimento penale per la ricostruzione del cosiddetto ‘tesoro’ di Vito Ciancimino sono state indirizzate nei confronti di Gianni Lapis e non di Ezio Brancato o delle sue eredi; è certamente vero che come avviene in ogni indagine penale e ancor più in indagini che durano anni e che appaiono complesse (sia per la quantità di fonti di prova raccolte, che per le persone coinvolte che per il fatto di avere ad oggetto operazioni finanziarie di difficile comprensione e spesso compiute anche all’estero) sicuramente i pubblici ministeri hanno omesso di approfondire degli elementi di prova che avevano raccolto e che non sempre vi è stato pieno accordo tra alcuni ufficiali della Pg delegata (Polizia giudiziaria ndr), i loro superiori e i magistrati titolari dell’indagine; è certamente vero che Ezio Brancato prima e Monia Brancato poi erano persone che il magistrato Giusto Sciacchitano ben conosceva e frequentava, come ammesso dallo stesso nella memoria in atti; appare, poi, verosimile che le eredi Brancato fossero a conoscenza di un’indagine in corso che coinvolgeva società di cui le stesse avevano rilevanti partecipazioni azionarie; basti pensare che le stesse Brancato venivano assunte a sommarie informazioni proprio in relazione a tali fatti. Ma oltre a questo Vi è ben poco d’altro”.
Obiettivamente, a chi legge, anche se non è a conoscenza dell’intera vicenda, non sembra che quanto il pm afferma come “provato” possa essere considerato “ben poco” e comunque è senza dubbio inquietante il permanere del dubbio in capo a magistrati chiamati in diverse Procure, anche importanti per il contrasto alla criminalità e la lotta alla mafia, a dimostrare indipendenza e affidabilità. Conseguentemente viene spontaneo augurarsi – a maggior ragione dopo quello che va emergendo e, soprattutto, alla luce di quello che potrebbe essere contenuto nell’archivio di Vito Ciancimino – che la Procura di Catania approfondisca adeguatamente tutti gli aspetti di una vicenda che, fino ad oggi, è stata volutamente letta a metà: facendo luce su una parte Il gruppo Lapis-Ciancimino junior) e lasciando i penombra la seconda parte (il gruppo Brancato). Anche perché un decreto di archiviazione non è certo un’assoluzione passata in giudicato. In ogni momento – il codice di procedura lo insegna – un caso archiviato può essere processualmente riaperto. Bella spada di Damocle per il vecchio pool investigativo. Per altro, la Gas (Gasdotti azienda siciliana) è riconducibile, secondo le dichiarazioni di collaboratori di giustizia quali Vara, Siino, Ferro ed altri – e questo è il convincimento di alcuni magistrati palermitani – allo stesso Vito Ciancimino e al boss mafioso Bernardo Provenzano, tanto che le società riferibili a quest’ultimo avrebbero operato con imprenditori mafiosi in molti Comuni siciliani, con contratto di appalto diretto ricevuto dalla stessa Gas, in lavori per la realizzazione di opere di metanizzazione e con i subappalti per la fornitura di materiali.

La Gas spa, unitamente a molte delle sue società satelliti (Akragas, Normanna, Gongas e via continuando), è stata ceduta dai gruppi Lapis e Brancato, per euro 120 milioni circa, al gruppo spagnolo della Gas Natural. Di questa somma la metà circa è stata fino ad ora attribuita al gruppo di Gianni Lapis, quale fittizio intestatario di Vito Ciancimino e quindi sequestrata dal pool di magistrati di Palermo capitanato dai procuratori Giuseppe Pignatone e Sergio Lari; mentre la quota dei Brancato, per altrettanti circa 60 milioni di euro è stata – di fatto – non coinvolta nelle indagini ed è rimasta a mani degli stessi Brancato. Come mai?

Proprio la quota del gruppo Lapis è quella che è stata oggetto di confisca e sulla cui effettiva natura illecita si dovrà pronunciare l’11 maggio prossimo il Tribunale delle misure di prevenzione di Palermo presieduto dal giudice Silvana Saguto. Il giudice ha nominato tre periti che hanno avuto il compito di ricostruire l’attribuibilità effettiva di questo tesoro a Vito Ciancimino e, quindi, al figlio Massimo.

Le concessioni su cui nessuno indaga
Tornando quindi all’archivio di don Vito è possibile che da questo ritrovamento possa farsi ulteriore luce sulla vicenda della Gas spa e degli effettivi fittizi intestatari delle quote e quindi del ‘tesoro’ di Vito Ciancimino. Non meraviglierebbe per niente avere conferma come l’intera holding Gas gasdotti azienda siciliana (cioè la Gas spa) e quindi come tutti i 120 milioni di euro di valore delle quote sociali fossero effettivamente ‘cosa’ di don Vito e di Bernardo Provenzano e non di un professore universitario esperto di diritto tributario e famiglia (Lapis) e di un impiegato dell’assessorato regionale all’Agricoltura et famiglia (Brancato), entrambi con mogli casalinghe (anche se con un consuocero importante: si tratta di Giustino Sciacchitano, magistrato presso la Dda a Roma, padre di Antonello che, per l’appunto, ha sposato Monia Brancato, figlia di Ezio Brancato).
A questo punto, più che confiscare il valore delle quote cedute andrebbero confiscate le ben più importanti – in termini di valore pecuniario e di frutto di illegalità – concessioni di erogazioni del metano di moltissimi Comuni siciliani (oltre 50), realizzate e gestite con i soldi dei contribuenti versati a fondo perduto alla Gas spa per poi finire nelle tasche delle società di Bernardo Provenzano & C. quali realizzatrici dei lavori per conto della concessionaria Gas. Concessioni di erogazione di metano di cui sta continuando a gestire e goderne i frutti la società spagnola subentrata ai gruppi Lapis e Brancato. Altro che 120 milioni di euro! Facendo realmente i conti si scoprirebbe che il vero ‘tesoro’ consiste non tanto nei 120 milioni di euro, ma in queste concessioni che fruttano cifre colossali. Su questo punto – che poi è il vero snodo di tutta la vicenda Gas spa, cessione agli spagnoli compresa – chissà perché, non è mai stata fatta piena luce. E ci sarebbe da chiedersi il perché, soprattutto nel ricordo – quello vero – di Paolo Borsellino, che sui “grandi appalti” in Sicilia indagava nell’ultimo periodo della sua vita. E di questi “grandi appalti” la storia della Gas spa è, di certo, tra i più importanti sia per l’enorme entità economica e finanziaria che ha rappresentato (e che ancora oggi rappresenta), sia per il coinvolgimento, in un intreccio perverso e smisurato, di mafia, imprenditoria, politica e magistratura.

Il ‘tesoro’ della Gas spa e la Romania
Nel frattempo anche l’Agenzia per la gestione dei beni confiscati sta facendo accertamenti sul patrimonio del figlio dell’ex sindaco di Palermo. L’annuncio è stato dato dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, Francesco Messineo: “So che Massimo Ciancimino dovrà essere ascoltato nei prossimi giorni sulla vicenda della Romania, dove si ipotizza che abbia un ‘tesoro’. Non è un tema nuovo ed è stato largamente esplorato nel primo procedimento a suo carico che si è concluso con la sentenza di secondo grado”.
A margine del convegno dal titolo: “Verso la riforma della giustizia”, organizzato nelle scorse settimane a Palermo, nei saloni di un hotel di Mondello, il procuratore Messineo ha ricordato che “i fatti su questa vicenda sono stati accertati anche con una rogatoria che ha individuato contesti societari di estremo interesse”.
Resterebbero ancora dei lati oscuri da esplorare. Lo rileva pure l’ultima relazione dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati. L’allora direttore, Mario Morcone, infatti scriveva: “La vicenda giudiziaria, che si sviluppa secondo le indicazioni del presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, riguarda valori che oscillano tra i 300 e i 500 milioni di euro”, distribuiti in “investimenti finanziari e beni intestati e persone fisiche e di compendi aziendali. Una parte di quote societarie e di beni – si legge sempre nel rapporto – è stata individuata in Italia, mentre l’asset di maggior valore economico, attraverso la Sirco spa, società holding oggi svuotata, e l’Agenda 21 s.a., società di diritto romeno, risulterebbe controllare un enorme volume di affari che investe il ciclo dei rifiuti: dalle discariche presenti in Romania (ivi compresa una considerata tra le più grandi d’Europa, 150 ettari di estensione per 40 metri di profondità), alle società di selezione e trasformazione, a quello di smaltimento di fanghi tossici”. Il lavoro però non è finito: “L’amministratore finanziario nominato dal Tribunale di Palermo e un ufficiale in servizio presso l’Agenzia nazionale stanno operando, anche direttamente in quel Paese, per il recupero del patrimonio, investendo la nostra ambasciata e il magistrato italiano di collegamento presente a Bucarest”.

Procure in ‘guerra’?
A margine del convegno, il procuratore Messineo è intervenuto anche sulle ultime polemiche suscitate dal caso Ciancimino. “Non abbiamo nessuna remora riguardo alla verifica che il Csm (Consiglio superiore della magistratura ndr) sta compiendo sul nostro percorso – ha detto – e attendiamo con tranquillità l’accertamento e le eventuali aree di azioni disciplinari”.
“La vicenda Ciancimino è molto delicata – dice invece il gip di Palermo, Piergiorgio Morosini, segretario generale di Magistratura democratica, a margine del convegno organizzato da Fillea Cgil, sempre a Palermo, questa volta a palazzo Reale, sede del parlamento siciliano, sull’immissione nell’economia delle imprese sequestrate e confiscate alle mafie -. Le ultime notizie che abbiamo dalla Procura nazionale antimafia rivelano un chiarimento tra i punti di vista delle diverse Procure – prosegue il giudice – e questo dimostra come certi attacchi della politica siano strumentali per non fare emergere la verità”.
Insomma: il contrasto tra le Procure di Palermo e Caltanissetta c’è stato o c’è qualcuno che, a tutti i costi, ha cercato e sta cercando di montare questo contrasto per alzare polveroni? Un’altra domanda per ora senza risposta.

Strane coincidenze
Un particolare probatorio importante è rappresentato dalle fotocopie di documenti che i pm hanno depositato, sempre nel processo Mori, unitamente alla perizia della polizia scientifica su alcuni documenti consegnati in questi anni da Massimo Ciancimino alla Procura di Palermo. Una delle fotocopie, secondo i rilievi della scientifica, sarebbe stato falsificata, aggiungendo il nome di De Gennaro alla lista di personaggi delle istituzioni e delle forze dell’ordine che avrebbero avuto, secondo Ciancimino junior, un ruolo nella trattativa tra mafia e Stato nel periodo delle stragi. Questo sarebbe proprio il documento che Massimo Ciancimino ha dichiarato che, tra altri, gli sarebbe stato consegnato proprio dal ‘puparo’.
Questa vicenda riporta ad un altro strano documento per cui procede la Procura di Catania, ovvero un documento interno consistente in una richiesta di iscrizione (non una certificazione o un’attestazione di iscrizione) appartenente alla Procura di Palermo, datata 2003, in cui sarebbe contenuta la richiesta di alcuni pm di iscrivere nel registro degli indagati la moglie e la figlia di Ezio Brancato, quotista di maggioranza della Gas spa. Questo documento dimostra che i pm avrebbero iscritto nel registro degli indagati per mafia anche Maria D’Anna Brancato e Monia Brancato, eredi di Ezio Brancato. Questo avveniva nell’anno 2003, cioè lo stesso anno in cui finivano indagati per mafia tutti gli altri protagonisti della Gas spa. E’ il documento che Gianni Lapis, coimputato insieme con Massimo Ciancimino nel processo per il ‘tesoro’ di Vito Ciancimino, consegna, nella primavera del 2008, al giudice Giuseppe Sgadari in sede di giudizio immediato. Lapis consegna questo documento al fine di provare che le indagini furono fatte a 360 gradi su tutti i gruppi societari della Gas spa.
La mossa di Lapis suscita una violenta presa di posizione e una reazione dei magistrati Lari e Prestipino, che avevano fin lì escluso fermamente che le Brancato fossero state indagate per la vicenda del ‘tesoro’ di Ciancimino. Per Lari e Prrestipino, Maria D’Anna Brancato e la figlia Monia erano solo da considerare parti offese. ‘Offese’ da chi?
I pm Lari e Prestipino, ritrovatisi firmatari di quella aliena richiesta, per altro una fotocopia di un presunto documento di disposizione interno alla Procura – con ben allegato un rapporto dei carabinieri di Monreale (acclaratamente vero) riguardante attività di intercettazioni telefoniche ad una utenza cellulare formalmente intestata a Monia Brancato ma, in realtà, nella disponibilità di un soggetto affiliato a ‘cosa nostra’ – prendevano le distanze dalla fotocopia dichiarandone al giudice il loro giudizio di falsità.
La fotocopia che i pm Lari e Prestipino definiscono “falsa” è identica ad altre fotocopie, munite di altrettanti allegati rapporti dei carabinieri, che riguardano indagini svolte nei confronti del solo Lapis e dei fratelli Italiano, altri soci storici della Gas spa. Queste fotocopie certificano l’iscrizione nel registro degli indagati per mafia dello stesso Gianni Lapis e i fratelli Luigi e Giuseppe Italiano (tutti soggetti appartenenti alla compagine sociale della Gas spa). Documenti che portano la firma degli stessi pm – cioè di Lari e Prestipino – e da loro pacificamente ritenute vere e come tali da loro stessi, a quell’epoca, prodotte in giudizio abbreviato contro l’imputato Lapis, ritenuto, come già ricordato, l’unico prestanome di Vito Ciancimino.
A questo punto, a domanda del giudice Giuseppe Sgadari, l’imputato Gianni Lapis giustificava in udienza come quella fotocopia l’aveva ricevuta con plico postale e l’aveva prodotta – in assoluta buona fede – ritenendola interessante per l’accertamento della verità; ma che non ne conosceva la provenienza e che non sapeva chi l’avesse a lui spedita anche se, essendo uguale alle altre prodotte dai pm, l’aveva ritenuta assolutamente vera come proveniente da fascicoli di indagine dei carabinieri. Il giudice Sgadari, nel dubbio, trasmette la fotocopia alla procura della Repubblica di Catania per accertamenti.

Il valzer dei ‘tarocchi’
Riassumendo, ci sono due plichi. Un plico postale nel 2008 e un plico postale nel 2010. Contengono, entrambi, fotocopie di documenti ritenuti dagli inquirenti come ‘taroccati’. Il primo è recapitato a Lapis, come documento proveniente da atti d’indagine dei carabinieri, da ignoto; il secondo è recapitato a Massimo Ciancimino, come documento appartenente a don Vito e contenente il nome di De Gennaro, da un disvelato ex carabiniere. Certamente Lapis e i due Ciancimino senior e junior sono indissolubilmente legati da destini giudiziari e processuali. Vuoi vedere che si scopre, poi, che il postino, ovvero il ‘puparo’, o comunque il consegnatario è lo stesso per entrambi?
A questo punto perché questo soggetto manderebbe in giro fotocopie false o falsificate o ‘taroccate’ che intende fare consegnare a magistrati e giudici? Quale attenzione investigativa vuole suscitare? Su chi? E per quale fine ultimo? Sarebbe molto interessante trovare le risposte a queste domande.

ambrosettigiulio@libero

*AVVERTENZA

 

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